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Argomenti per il terzo anno:

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Aristotele
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Mappa - origini della filosofia
La chiesa del XII sec.
Le crociate

ARISTOTELE

Metafìsica
Non è facile parlare della "Metafisica". In primo luogo perché non ci troviamo di fronte ad un’opera filosofica nel vero senso della parola, ma, piuttosto, ad un insieme di scritti di diverse età riuniti insieme in parte dallo stesso Aristotele, in parte da editori successivi. In secondo luogo perché, come tutte le opere aristoteliche che ci sono pervenute, si tratta di uno scritto non destinato alla pubblicazione, ma ad uso scolastico; ci troviamo cioè di fronte non ad un’opera definita, rivista ed esauriente, ma di fronte ad una raccolta di appunti stringati che Aristotele sviluppava poi a lezione. Insomma, più che di un’opera in senso pieno, si tratta di un vero e proprio zibaldone filosofico, privo di unità letteraria e di unitarietà di gestazione cronologica, ma unitario dal punto di vista speculativo – almeno nei suoi concetti portanti: alla tesi di Werner Jaeger, secondo cui la "Metafisica" costituirebbe un’inorganica unione di scritti diversi e composti in età differenti si contrappone quella di Giovanni Reale, per il quale invece l’opera aristotelica ha una sua profonda unitarietà. Il primo grande problema in cui si imbatte il lettore della "Metafisica", è il titolo: non solo non fu Aristotele ad intitolare "Metafisica" quest’insieme di scritti, ma addirittura egli ignorava il termine, che fu invece adoperato dai suoi editori di età successive. In particolare, pare che possa essere stato Andronico a coniare il termine e ad attribuirlo allo scritto aristotelico; in questo senso, ta meta ta fusika avrebbe un senso banalmente editoriale di "cose (meglio, "libri") che vengono dopo quelli di fisica"; vale a dire che, nell’edizione di Andronico, gli scritti aristotelici di fisica occupavano una posizione preminente. Ma è possibile anche una seconda interpretazione del titolo aristotelico, riferibile ad Eudemo di Rodi (discepolo di Aristotele stesso) ed esulante dal significato meramente editoriale voluto da Andronico. In questa nuova accezione, ta meta ta fusika si colora di un nuovo significato: meta in greco può sia significare "dopo" sia "sopra", cosicchè il titolo dell’opera aristotelica vorrebbe dire "cose che stanno dopo quelle fisiche" o "cose che stanno sopra quelle fisiche". Secondo la prima possibilità, parrebbe che il nostro spirito sia strutturato in maniera tale da indagare dapprima le realtà fisicamente concrete e, solo in un secondo tempo (cioè dopo aver su di esse proiettato la propria indagine), passare all’investigazione su quelle non sensibili; si tratterebbe dunque di una scienza che viene dopo quella fisica. Nella seconda accezione, quella secondo cui meta starebbe a significare "sopra", metafisica sarebbe l’indagine delle realtà che stanno sopra quelle fisiche: si tratterebbe dunque della conoscenza di una realtà trascendente. La sovrapposizione di questi due possibili significati (meta sia come "dopo" sia come "sopra") è a molti studiosi sembrata inopportuna, ma, se letta in trasparenza, pare alquanto adeguata, non solo perché il testo aristotelico giustifica ampiamente entrambe le possibili traduzioni, ma anche perché le due accezioni di meta sono, in qualche modo, compresenti e integrantisi a vicende. Il primo libro dell’opera, strutturata in quattordici libri, si apre con un incipit famosissimo, destinato a diventare quasi proverbiale (ancora Dante, nel Convivio, lo riprende con entusiasmo): panteV anqropoi tou eidenai oregontai fusei (tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza). Che tutti gli uomini aspirino al conseguimento del sapere, per loro inclinazione naturale, appare ad Aristotele evidente da una prova (shmeion) assolutamente inconfutabile: l’amore fine a se stesso che essi hanno per le sensazioni, alle quali non rinuncerebbero per nulla al mondo. Ammettendo per assurdo che esse non abbiano alcuna utilità, ci sarebbe qualcuno di noi disposto a privarsi delle sensazioni che l’accompagnano ogni istante? Certo che no. In particolare, quella che è più cara agli uomini è la vista, che non a caso è quella che – più di ogni altra – ci permette di conoscere. Tutti gli animali sono forniti di sensazione: come precisa nel suo scritto sull’anima (Peri yuchV), tutti gli animali, anche i più semplici, sono almeno dotati del senso del tatto, indispensabile per la vita; in ciò risiede la differenza dal mondo vegetale, vivente anch’esso, ma incapace di avere sensazioni. La natura ha fornito ogni animale di sensazioni, ma non a tutti ha concesso che da esse nascesse la memoria, in virtù della quale si può imparare: è infatti dall’accumulo di dati nella memoria che è possibile apprendere gradualmente. L’esser privi della memoria, però, non implica necessariamente la mancanza di intelligenza, tutt’al più comporta l’impossibilità di imparare, impossibilità che caratterizza anche tutti quegli animali che, seppur provvisti di memoria, mancano dell’udito. E’ questo il caso dell’ape: essa è indubbiamente un animale intelligente, perché agisce in vista di fini ben precisi, e per di più è in grado di memorizzare immagini; ma, ciononostante, - specifica Aristotele - non è dotata dell’udito e quindi non potrà mai apprendere. L’uomo, dal canto suo, sta su un gradino superiore rispetto a tutti gli altri animali, i quali vivono di immagini sensibili e di ricordi, ma non di tecnica e di ragionamenti (tecnh kai logismoiV): dalla memorizzazione delle esperienze, gli uomini sono in grado di produrre la scienza e la tecnica, formando giudizi generali a partire da casi individuali. L’esempio che a tal proposito adduce Aristotele è illuminante: se Callia è affetto da una certa malattia, l’esperienza mi attesterà che questa data cura ha precedentemente giovato ad altri uomini affetti dalla stessa malattia; la tecnica, invece, mi suggerirà che a tutti i malati di quel tipo giova quella certa cura. Ma sembra che la differenza tra tecnica ed esperienza (differenza che risiede nel fatto che l’esperienza conosce i particolari, la tecnica gli universali) sia minima, quasi inesistente: e in effetti Aristotele nota come chi ha acquisito una nutrita serie di esperienze, pur mancando della teoria, può avere successo, di sicuro più di chi è dotato di teoria ma privo di esperienza. Chi ha la teoria, conosce i casi universali; chi ha l’esperienza conosce invece i casi singoli e ha maggior successo in campo medico (ma non solo medico) perché la cura è sempre destinata ai casi singoli (Socrate, Callia, ecc: mai all’uomo, all’animale, ecc). Ciò non toglie, tuttavia, che la tecnica sia incommensurabilmente superiore rispetto all’esperienza, giacchè – a differenza di questa – rende conto delle cause ed è trasmissibile attraverso l’insegnamento: chi possiede esclusivamente l’esperienza, infatti, non sa né render conto del perché né insegnare ad altri le proprie acquisizioni. Anche chi ne ha fatto esperienza sa che quel determinato rimedio alla data malattia è stato efficace in una pluralità di casi, ma non sa perché e non è in grado di trasmetterlo ad altri. Anche la tecnica, però, non rappresenta per Aristotele il vertice del sapere: questo perchè la tecnica, in tutte le sue manifestazioni, è subordinata a fini diversi dalla conoscenza ed è destinata - ciò vale per le prime tecniche inventate dagli uomini - a soddisfare i bisogni primari e a garantire la sopravvivenza. Il loro scopo è dunque l'utilità, ma anche arti, inventate successivamente, come per esempio la musica, pur non avendo come fine l'utilità, hanno tuttavia un fine diverso dalla conoscenza: esse mirano infatti a produrre piacere o diletto. Al di sopra delle tecniche si colloca, dunque, una forma di conoscenza che ha di mira soltanto se stessa: il conoscere per il conoscere, ossia la conoscenza disinteressata, veramente libera, non subordinata a fini esterni ad essa. Questa è la sofia, il sapere più alto, a cui mira la filosofia. Un autentico sapere che renda conto delle cause e dei princìpi e che non serva a nulla: proprio perché libera da ogni vincolo di servitù, la sofia è il sapere più nobile (degno di un Dio), che più d’ogni altro merita di essere seguito: "è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa" (982 b 25). Tanto più che, come Aristotele ripete anche in altri suoi scritti, l’uomo è per natura "animale razionale", che trova la propria massima realizzazione nel pensare. In tal modo, Aristotele ha elaborato una nozione di sapere ormai lontana dal significato arcaico di sapere come saper fare, cioè di un sapere legato e funzionale al produrre. Ma come nasce la filosofia? Aristotele, qui in sintonia con Platone, ravvisa nella meraviglia il motore dell’indagine filosofica: è a causa della meraviglia (dia to qaumazein) che è scattata l’esigenza di porsi domande e tentare di rispondere ad esse; è di fronte a cose meravigliose (quali i fenomeni lunari e solari, o la generazione dell’universo) perché inesplicabili che l’uomo ha cominciato ad esercitare la filosofia, dia to feugein thn agnoian ("per sfuggire all’ignoranza"). Di fronte ad una cosa sconosciuta, che desta in noi un senso di meraviglia, proviamo a rispondere essenzialmente a due domande: che cos’è? perché è? E la filosofia nasce appunto come tentativo di fornire una risposta a queste imbarazzanti domande, che non possiamo affatto eludere, giacchè è la nostra stessa natura di esseri miranti al sapere che ce le impone e non s’acquieta finchè non ha risposto ad esse. La filosofia è dunque tenuta non solo a spiegare il "che cosa" (ti), ma anche il "perché" (dioti) e, sotto questo profilo, si configura come ricerca delle cause: i medioevali diranno, con un motto divenuto proverbiale ma che rispecchia fedelmente la prospettiva aristotelica, che "verum scire est scire per causas". Fin tanto che ignoriamo le cause che le producono, anche le cose più banali (come una marionetta che si muove, dice Aristotele) è per noi fonte di incredibile meraviglia: una volta spiegato il "perché" di quelle cose, la meraviglia intorno ad esse cessa, viene sconfitta e cede il passo alla conoscenza. Ma chi è assillato dal dubbio ed è animato dalla meraviglia, riconosce apertamente di non sapere, giacchè – se sapesse – non si troverebbe in tale condizione: ed è per questo motivo che, in un certo senso, anche l’amante dei miti (filomuqoV) è una sorta di filosofo; anche il mito, infatti, è costruito intorno a cose che destano stupore e che ci spingono alla ricerca delle cause che le han prodotte, anche se – a differenza della filosofia – si tratta di un’indagine extra-razionale, che percorre vie alternative a quelle dettate dalla ragione:

"Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli altri astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicchè, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressochè tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E' evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa". (A 2 982b)

In questo modo, la prospettiva anassagorea, che dava maggiore importanza al "saper fare" (tecnh) rispetto al "sapere" in quanto tale (sofia), viene capovolta. Da tutte queste considerazioni, Aristotele evince che sia necessario indagare sulle "cause prime", giacchè possiamo dire di conoscere veramente una cosa solamente se ne conosciamo le cause: ma che cosa dobbiamo intendere per "cause" (ta aitia)? Ve ne sono ben di quattro tipi, spiega Aristotele, sostenendo orgogliosamente la propria superiorità rispetto a tutta la tradizione precedente, che non è pervenuta a elaborare una teoria completa della causalità: se Platone aveva indicato nelle idee, ossia in oggetti puramente intelligibili, le vere cause di tutto quanto è e avviene anche nell’ambito del mondo sensibile, Aristotele non si discosta dal mondo materiale che ci sta dinanzi; ora (ma anche nella "Fisica", cui Aristotele stesso rimanda) spiega come, in un primo senso, la causa sia la sostanza e l’essenza delle cose (causa materiale). E’ causa della statua di bronzo il bronzo stesso di cui essa è fatta, ossia la materia; ma esso, da solo, non costituisce ancora la statua; perché essa ci sia, occorre che il bronzo assuma una determinata forma: anche la forma dunque è causa (causa formale), insieme alla materia, della statua di bronzo. La forma è data dall'essenza, che viene indicata mediante la definizione, la quale, a sua volta, denota proprio che cos'è un oggetto (in questo caso la statua). D'altra parte, né la materia da sé è in grado di assumere quella determinata forma né quella determinata forma è in grado di imporsi da sé a quella determinata materia. Perché avvenga questa connessione tra materia e forma occorre un agente (causa del movimento o causa motrice): nell'esempio della statua sarà l'artefice di essa, capace con la sua azione di far assumere quella determinata forma al bronzo. L'artefice, però, non produce la forma; è invece la conoscenza della forma a guidare la sua azione produttrice. In quanto causa efficiente, l'artefice è infatti guidato, nella sua azione manipolatrice del bronzo, dal fine che egli intende realizzare, ossia appunto la statua di bronzo. Da questo punto di vista, la statua, nel suo compimento, è la causa finale del processo in cui si attua l'imposizione di una determinata forma a una determinata materia: essa è ciò a cui mira l'artefice nella sua produzione. Queste considerazioni valgono, secondo Aristotele, in generale per l'agire umano, che è intenzionalmente diretto verso scopi, ma valgono anche per le entità del mondo naturale. La differenza decisiva è che nel caso della natura l'agente del processo è interno agli stessi oggetti naturali, e non esterno come è nel caso delle produzioni tecniche. Ma ad Aristotele pare bene ripercorrere anche le dottrine sulla causa delineate dai suoi predecessori, per poter trovare nuovi generi di causalità o conferma di quelle da lui stesso rinvenute: ci troviamo così improvvisamente proiettati in una vera e propria "storia della filosofia", la prima che sia mai stata stesa. Si tratta di un procedimento argomentativo caro allo Stagirita e lo ritroviamo in moltissimi altri suoi scritti (Peri yuchV, Peri ouranou, ecc): ciò è in buona parte dovuto al fatto che per Aristotele la conoscenza è un sapere che coinvolge in una proficua collaborazione gli uomini del presente e quelli del passato, con la conseguenza che la tradizione non è una voce morta e spentasi per sempre, ma, al contrario, un qualcosa che ci chiama di continuo. In origine, la causa venne intesa in senso materiale, come principio da cui deriva la realtà nelle sue più svariate sfumature: d’accordo su questo punto, gli antichi filosofi entravano però in conflitto quando si trattava di determinare quale effettivamente fosse tale principio che sta alla base della realtà. Così Talete lo individuò nell’acqua – forse perché i semi sono sempre umidi -, Anassimene e Diogene nell’aria, Ippaso ed Eraclito nel fuoco, Empedocle in quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), Anassagora in un’infinità di semi, e così via. Ma l’errore che accomuna tutti questi filosofi è da Aristotele ravvisato nel loro essersi fermati alla causa materiale, senza spingersi oltre e, soprattutto, senza render conto del mutamento dei princìpi nella realtà: essi non sono stati in grado di cogliere il principio del movimento e, pertanto, la loro ricerca si è arenata. Con un occhio di riguardo Aristotele si sofferma sulle tesi di Empedocle e di Anassagora: il primo, intravedendo nell’Amore e nell’Odio i due princìpi motori della realtà, pare aver colto, seppure in modo sfumato e maldestro, la causa del movimento; Anassagora, dal canto suo, è stato in grado, con straordinaria raffinatezza, di individuare in un’Intelligenza cosmica (NouV) il principio ordinatore del cosmo; ma egli ha tuttavia sbagliato nella misura in cui non si è servito in maniera adeguata di questo principio, in particolare nel non aver riconosciuto in esso alcun finalismo (Platone stesso muoveva ad Anassagora accuse simili nel "Fedone") ma un puro e semplice deus ex machina. L’intuizione anassagorea, insomma, era buona, ma non è stata portata fino in fondo. Democrito, invece, e il suo collega Leucippo hanno individuato negli atomi e nel vuoto (da loro assimilati all’essere e al non-essere parmenideo) i princìpi in grado di spiegare la realtà quale appare ai nostri occhi: anch’essi, però, non han reso giustizia al principio del movimento, né tantomeno alla causa finale. Le aggregazioni che avvengono tra gli atomi che si muovono nel vuoto, infatti, non sono in vista di alcun fine, ma sono rette da una rigida necessità deterministica. Dopo Democrito, Aristotele prende in considerazione le teorie dei Pitagorici, i quali hanno ravvisato nel numero il principio della realtà, forse muovendo dalla constatazione che ad accomunare tutti gli enti è la loro misurabilità. L’impiego "mistico" che essi fanno dei numeri pare però poco convincente e, spesso, contraddittorio, come quando asseriscono che l’essenza del doppio e l’essenza del due sono la stessa cosa. Come diretta erede del pitagorismo, Aristotele indaga la filosofia di Platone, mettendone in luce la forte derivazione cratilea: muovendo dall’indagine socratica del ti estin, Platone si accorse dell’impossibilità di dare definizioni stabili in un mondo instabile e continuamente cangiante quale è il nostro; e perciò ricorse ad un mondo ultrasensibile, regno dell’essere in senso pieno (l’essere parmenideo) e non soggetto al divenire. Le cose del nostro mondo sarebbero pallide copie che partecipano delle Idee della realtà intelligibile: ma in questa sua teoria (direttamente mutuata dai Pitagorici) Platone – nota Aristotele – non ha spiegato che cosa realmente si debba intendere per "partecipazione" (meqexiV) e, soprattutto, al di là delle sue stravaganti dissertazioni sui Numeri, ha fatto uso di due sole cause, quella formale e quella materiale. Dopo questa rapida carrellata di teorie dei predecessori, Aristotele si sofferma diffusamente, caso per caso, sugli errori da loro commessi: in generale, al di là delle specifiche differenze, i naturalisti sbagliano a sostenere la sola esistenza di realtà corporee, ignorano la causa del movimento e peccano di ingenuità quando additano come principio uno qualsiasi dei corpi semplici (sia esso l’acqua, o il fuoco, o l’aria). Lo Stagirita si riserva per ultima la critica al platonismo, nella quale dà il meglio di sé: in primis, egli nota come non sussistano prove effettive dell’esistenza delle Idee postulate da Platone; inoltre dal "Sofista" risultava anche che esistessero Idee di relazioni (l’idea di "diverso", di "uguale", ecc), il che appare non solo ridicolo, ma addirittura impossibile e facilmente confutabile dispiegando l’arma argomentativa del "terzo uomo", di cui Aristotele fa più volte ricorso, nei suoi scritti, per demolire la dottrina delle Idee: se l’uomo è tale perché partecipa dell’Idea di uomo, quest’ultima, a sua volta, dovrà essere tale perché partecipa di un "terzo" uomo; e così via, all’infinito. Ma Aristotele si pone anche una domanda non da poco circa la teoria delle Idee: che vantaggio comporta agli esseri sensibili? Le Idee, infatti, non causano alcun movimento né giovano alla conoscenza delle cose né al fatto che esse sussistano. Se poi le Idee sono numeri, in che modo potranno mai essere cause? Aristotele sferra una serie di accuse anche piuttosto tecniche a Platone, facendo leva sulla sua dottrina dei Numeri Ideali e sulle assurdità che ne conseguono: la nota conclusione a cui perviene è che le Idee non hanno esistenza autonoma, ma sono, piuttosto, un’astrazione operata dal nostro intelletto; sicchè vedo tre cavalli non già perché vi è una partecipazione del sensibile ad una fantomatica Idea del tre situata in qualche luogo sperduto al di là dei sensi; al contrario, ricavo l’idea del tre dall’aver visto gruppi di tre cavalli, di tre case, e così via. Pur avendo aspramente criticato le dottrine dei suoi predecessori, Aristotele apprezza il loro lavoro, inteso come un’inesauribile fonte di spunti e di idee: la dottrina delle "quattro cause", ad esempio, fu da essi intravista, anche se in maniera poco chiara, e questo perché "la filosofia primitiva sembra che balbetti su tutte le cose, essendo essa giovane e ai suoi primi passi" (993 a 15). In apertura del brevissimo secondo libro (per alcuni aspetti appendice del primo), troviamo un’acuta considerazione sulla ricerca della verità: essa è, al contempo, un qualcosa di facile e di difficile; difficile perché è impossibile cogliere del tutto la verità, ma facile perché è altrettanto impossibile non coglierla del tutto. Sebbene sia impossibile che ciascuno di noi raggiunga da solo il possesso della verità, resta vero che, collaborando, gli uomini possono riuscire a dare contributi considerevoli: per questo motivo dobbiamo essere grati ai filosofi precedenti – dice lo Stagirita -, poiché ci hanno lasciato in eredità contributi preziosissimi per ricostruire il mosaico della verità. Quest’ultima non sarebbe di per sé difficile da scoprire, poiché essa è riposta nelle cose e non è nelle cose che risiede la difficoltà: siamo piuttosto noi che, come le nottole (Hegel si ricorderà di questo paragone) non vedono alla luce del sole, non riusciamo a cogliere ciò che ci è alla mano, sotto gli occhi. La fiducia di Aristotele nei sensi è incredibilmente forte: mai nessun filosofo ne aveva nutrita tanta, solo Epicuro lo eguaglierà. Fatte queste considerazioni preliminari, lo Stagirita torna sui punti discussi nel libro primo, in particolare sulla causalità, che sta alla base del conoscere ("noi non conosciamo il vero senza conoscere la causa", 993 a 23): in particolare, egli insiste su come le cause siano necessariamente finite, sia per numero sia per specie; se così non fosse, si dovrebbe andare all’infinito nella conoscenza, senza mai raggiungere alcun risultato. Il metodo da seguire, poi, non può essere unico per tutte le scienze, ma dovrà basarsi sugli oggetti in questione: di metodi Aristotele ne individua due, uno soggettivo e uno oggettivo. Come esempio di "soggettività" possiamo pensare all’assuefazione che ciascuno di noi ha verso un certo modo di procedere e che vorrebbe estendere a tutti gli altri: ma ciò è, oggettivamente, impossibile, poiché non ci si potrà muovere in ambito matematico e fisico con lo stesso metodo. Il libro terzo è il libro delle "aporie", ossia delle problematiche (ne vengono presentate una quindicina) in cui ci si imbatte quando si fa metafisica: la difficoltà ha valore costruttivo, poiché è solo attraverso essa che si può passare dal non sapere al sapere; in questo senso, raggiungere la verità consiste nel superare la difficoltà, proprio come quando ci troviamo a dover sciogliere un nodo: la difficoltà è il nodo, lo scioglimento è la soluzione. Chi non sa e non si imbatte in difficoltà alcuna, è pertanto condannato a rimanere nell’ignoranza. Ma da dove nascono tali difficoltà? Soprattutto dalle opinioni degli altri pensatori, dai dubbi sollevati da essi e dalle contraddizioni in cui sono inciampati e che restano irrisolte: viene dunque ribadita la necessità di conoscere il pensiero altrui, in particolare quello dei predecessori, poiché è solo conoscendo ciò che essi han detto e dove hanno sbagliato che possiamo, a nostra volta, formulare soluzioni alle domande da loro poste e lasciate irrisolte. Concretamente ecco le aporie: 1] studiare i diversi tipi di cause è ufficio di una sola scienza o di diverse? 2] Lo studio dei princìpi delle sostanze e di quelli della dimostrazione spetta alla stessa scienza o a scienze diverse? 3] Lo studio di tutte le sostanze compete ad una o a più scienze? 4] La scienza orbita intorno alle sole sostanze, o anche agli accidenti? 5] Esistono anche sostanze non sensibili? E se sì, esse sono di un solo genere oppure no? 6] I princìpi primi sono i generi o gli elementi materiali? 7] I princìpi primi sono i generi sommi oppure generi infimi? 8] Se esistono solo sostanze individuali, come è possibile la scienza? 9] L’unità dei princìpi è specifica oppure generica? 10] I princìpi delle cose corruttibili sono gli stessi di quelle incorruttibili? 11] l’Ente e l’Uno sono sostanze delle cose? 12] I numeri e gli enti geometrici sono sostanze? 13] Perché, al di là dei sensibili e degli intermediari, c’è bisogno di trovare altri enti, come le Idee di Platone? 14] Gli elementi sono in potenza o in atto? 15] I princìpi sono universali o individuali? E’ facile capire come il tema centrale delle aporie sia quello delle cause e dei princìpi: ogni aporia è presentata da una tesi (desunta dai naturalisti) a cui è contrapposta un’antitesi (desunta da Platone), ma nessuna delle due regge (viene messa in luce l’assurdità che deriverebbe se una delle due fosse valida). Si tratta pertanto, secondo Aristotele, di aprirsi una nuova strada, che tenga conto sia della tesi sia dell’antitesi, ma che non resti impigliata in esse e nei loro errori; ed è ciò che lo Stagirita fa nei libri successivi, dove dipana a poco a poco il groviglio dei problemi affiorati in questo terzo libro. Di tutte e quindici, spicca la quinta aporia, con la quale ci si domanda la possibilità dell’esistenza di realtà trascendentali, ovvero meta-fisiche (istanza che ritorna con insistenza nell’ottava e nella tredicesima aporia). Del resto, ogni questione inerente ai princìpi può ridursi alla questione se i princìpi siano materiali o no. Il quarto libro è uno dei più famosi, in quanto è in esso che emergono gli aspetti salienti del pensiero aristotelico: viene data una definizione di metafisica, poi una di essere, in seguito viene affrontato il tema degli "assiomi" e, infine, viene preso in esame il "principio di non contraddizione" mediante la confutazione (elegcoV) di coloro che lo negano. Ma procediamo con ordine: in apertura del quarto libro, troviamo scritto che estin episthmh tiV h qewrei to on h on kai ta toutw uparconta kaq’ auto ("c’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale"). Tale è, appunto, la metafisica: il suo oggetto di indagine è "l’essere in quanto essere", ossia l’intero della realtà, e condurre una tale investigazione significa trovare le cause che lo giustificano. Dove sta la differenza tra la metafisica e le altre scienze? Nel fatto che, mentre queste ultime sono conoscenze di una "parte" della realtà (sono cioè conoscenze settoriali e parziali della realtà), la metafisica abbraccia con la sua indagine l’intera realtà, nel tentativo di cogliere non le singole parti e i singoli aspetti, ma i "princìpi supremi". In connessione col concetto di "essere", Aristotele studia quello di "uno", giacchè quest’ultimo è convertibile in quello di essere ("ens et unum convertuntur" diranno i medioevali): ne consegue che il metafisico dovrà anche studiare i concetti di "diverso", di "identico", di "simile", e di tutti gli altri che sono connessi a quello di uno. Prendendo le mosse dall’essere come intero compatto, lo Stagirita affronta la questione del principio di non contraddizione: ma, ancor prima, fa un excursus sui "settori" particolari dell’essere, ossia su quelle porzioni di realtà che vengono prese in esame dalle singole scienze. Chi esercita le varie scienze fa uso di princìpi e di assunti valenti per singoli ambiti della realtà, ma, accanto ad essi, si avvale di "assiomi" validi per l’intero ambito dell’essere ("essi sono propri dell’essere in quanto essere", 1005 a). Ma se essi sono comuni all’intera realtà, quale scienza dovrà occuparsene? La metafisica, dice Aristotele, poiché è l’unica ad avere come campo d’indagine l’intero essere, tanto più che le altre scienze fanno uso di tali assiomi ma non dicono nulla su di essi (proprio perché essi non ineriscono ad un ristretto ambito di realtà). Al contrario, la metafisica non solo fa uso di essi, ma di essi si occupa in maniera sistematica. Ma, in concreto, quali sono questi assiomi universalmente validi? Il principale di essi è il "principio di non contraddizione", che può essere formulato in una miriade di modi, e Aristotele così esprime: "è impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto". Di tutti gli assiomi, questo è il più saldo, giacchè nessuno si sognerebbe di sostenere che una stessa cosa sia e non sia (ad es. "A è A e non-A"); ma il principio di non contraddizione è al contempo legge dell’essere e legge del pensiero: è infatti impossibile sia che la stessa cosa appartenga e non appartenga ad una medesima cosa, sia pensare che la medesima cosa sia e non sia. Vi è dunque una profonda corrispondenza tra pensato e reale: del resto, essendo il principio di non contraddizione un principio valido per l’essere in quanto essere, è naturale ch’esso valga anche per la struttura mentale dell’uomo, la quale rientra a pieno titolo nell’essere. In tempi più recenti, Kant prenderà in un certo senso le mosse dall’identità aristotelica di pensato e reale ricorrendo alle "dodici categorie", valide per la mente umana ma anche per la realtà (sarà anzi la stessa mente umana ad impiegarle per leggere la realtà, a differenza di quanto crede Aristotele). Il principio di contraddizione è il più valido di tutti ed è anzi quello da cui tutti gli altri derivano: esso sta alla base di ogni possibilità di ragionamento e di dimostrazione; in quanto è il "principio primo" da cui derivano tutti gli altri, esso è indimostrato e indimostrabile, ma deve necessariamente essere ammesso (a meno che non si voglia prolungare all’infinito la ricerca di un principio); qualora qualcuno, intestardito, voglia provare a dimostrarlo, si troverà inevitabilmente a far uso di esso nella sua dimostrazione! Il che è evidentemente assurdo. Da ciò si può evincere come tutti, intuitivamente, sappiamo cosa esso sia e ce ne serviamo abitualmente. Eppure ci sono stati filosofi che l’hanno respinto, negandogli ogni validità argomentativa: ad avviso di costoro, è possibile affermare che una stessa cosa può essere e non essere e, conseguentemente, pensare che una stessa cosa può essere e non essere. Contro questi avversari, non si può esibire una dimostrazione del principio di non contraddizione, giacchè – come abbiam detto – esso è indimostrato; si può tuttavia percorrere una strada alternativa e vincente: quella dell’ elegcoV, ossia della confutazione dell’avversario, mettendo in evidenza come il discorso del negatore del principio di non contraddizione non riesca nemmeno a costituirsi, giacchè, per costituirsi, dovrebbe fare ricorso allo stesso principio di non contraddizione. Non appena l’avversario apre bocca, infatti, dice qualcosa e se a questo qualcosa annette un senso, allora dice qualcosa di determinato che, proprio perché determinato, non potrà essere la sua negazione. In fin dei conti, chi nega il principio di contraddizione (e Aristotele ha soprattutto in mente i sofisti, primi fra tutti Gorgia e Protagora), per essere coerente, dovrebbe star zitto e non pensare: il che equivarrebbe a regredire allo stadio di vegetale. D’accordo almeno in questo con il maestro Platone, lo Stagirita respinge senza mezzi termini le tesi dei sofisti (a cui dedica lo scritto "Confutazioni sofistiche"): alla tesi anti-protagorea "se è tutto vero, allora è vero anche che esiste il falso e che ciò che dice Protagora è menzogna" e a quella anti-gorgiana "se tutto è falso, allora anche ciò che dice Gorgia lo è", egli ne affianca ora una nuova: il sofista, negatore del principio di non contraddizione, non appena apre bocca sconfessa già le proprie posizioni. Aristotele non si accontenta della dimostrazione a favore del principio di non contraddizione poc’anzi esposta e ne squaderna un’altra: nel suo significato più forte, l’essere è sostanza, dove per "sostanza" (ousia) dobbiamo intendere tutto ciò che esiste di per sé; negare il principio di non contraddizione vuol dire, come sappiamo, negare l’essere in generale; ma vorrà anche dire negare l’essere nel significato di sostanza. Sicchè l’essenza di "uomo" sarà anche essenza di "non-uomo": ma, negando la sostanza, tutto si riduce ad "accidente", dove per accidente dobbiamo intendere tutto ciò che esiste nella misura in cui inerisce ad una sostanza (il rosso, il caldo, ecc, sono accidenti perché esistono in riferimento ad una sostanza: una casa rossa, un libro rosso, ecc); se dunque togliamo la sostanza dovrebbe restare solo l’accidente, ma quest’ultimo, per esistere, ha sempre bisogno di una sostanza a cui inerire, cosicchè – venuta meno la sostanza – cadrà anche l’accidente e, con esso, tutto l’essere. Molti pensatori, poi, hanno negato il principio di non contraddizione facendo leva sulla contraddittorietà del reale, sul suo fluire incessante e sulla sua assenza di stabilità: partendo da queste considerazioni, essi hanno universalizzato la questione, arrivando a sostenere l’instabilità dell’intero essere. Ma Aristotele avverte: "dovremo dimostrare che esiste una realtà immobile e dovremo convincerli di questo": la pretesa di fare dell’essere intero un qualcosa di instabile perché instabile è il mondo sensibile viene dunque stigmatizzata ed è nel libro dodicesimo che lo Stagirita dimostrerà l’esistenza dell’enigmatico "motore immobile". Derivante dal principio di non contraddizione è pure quello del "terzo escluso", così formulato: "non è neppure possibile che fra i due contraddittori ci sia un termine medio, ma è necessario o affermare o negare, di un medesimo oggetto, uno solo dei contraddittori". Se il primo libro costituiva la prima "storia della filosofia" mai scritta, il quinto libro si configura invece come il primo dizionario filosofico che sia mai stato realizzato: Aristotele vi discute il significato dei termini cardinali che vengono impiegati in filosofia, provando a considerarli sotto diversi punti di vista. Il primo vocabolo preso in considerazione è quell’ arch ("principio") alla cui ricerca si erano dedicati i fusiologoi, i primi filosofi della natura (Talete, Anassimene, Anassimandro): vediamo nel dettaglio quali sono le parole su cui lo Stagirita concentra la propria attenzione:

* arch (principio): ciò da cui una cosa comincia (così l’avevano inteso i filosofi naturalisti); il punto di partenza migliore; la causa efficiente; il potere di far muovere qualcosa; ciò da cui si parte per conoscere qualcosa;

* aition (causa): la materia; la forma; il principio del movimento; il fine;

*stoiceion (elemento): il costitutivo primo di cui son fatte le cose; ciò che è piccolo, semplice ed indivisibile (gli atomi di Democrito);

* fusiV (natura): la generazione delle cose che crescono; il principio interno della cosa; il principio di movimento intrinseco; il principio materiale; ogni sostanza;

* anagkaion (necessario): ciò senza di cui il vivente non può vivere; ciò che costringe; ciò che non può essere diversamente da come è; la dimostrazione (in quanto le conclusioni non possono essere che come sono);

* en (uno): a) unità accidentale: sostanza con un accidente (es. "Corisco" e il "musico"), due accidenti ("musico" e "giusto"), una sostanza insieme ad un accidente ma rispetto alla medesima sostanza considerata assieme ad un altro accidente ("Corisco musico" e "Corisco giusto"), la sostanza con un accidente rispetto alla medesima sostanza ("Corisco musico" e "Corisco"), lo stesso caso di prima ma letto in universale ("uomo musico" e "uomo"); b) unità essenziali: quando sono continue, quando è identico di specie il loro sostrato, quando è identico il loro genere, quando è identica la loro definizione; c) misura prima di un genere;

* to on (l’essere): in senso accidentale ("il giusto è musico"), per sé (vi rientrano tutti i sensi delle categorie), l’essere come vero ("Socrate è musico": intendiamo come "è vero che Socrate è musico"); potenza e atto;

* ousia (sostanza): i corpi semplici; la causa immanente dei corpi semplici; i limiti del corpo (vale per alcuni filosofi, non per Aristotele); l’essenza delle cose;

* ta auta / diafora (identico/differente): due cose sono identiche o accidentalmente o essenzialmente; due cose sono diverse in senso opposto a quello per cui si dicono identiche; differenti sono due cose che sono diverse ma che fra loro hanno qualche identità; simili sono due cose che hanno tutte le affezioni identiche; dissimili quelle opposte;

* antikeimena / enantia / etera / ta auta (opposto, contrario, diverso, identico)

* protera kai ustera (prima e dopo): anteriori e posteriori si dicono le cose a seconda che siano o no più vicine (in base allo spazio, al tempo, al movimento, alla potenza, all’ordine) ad un determinato principio; ma le cose si dicono posteriori o anteriori anche in riferimento alla conoscenza e, nella fattispecie, secondo la nozione definitoria (l’universale sta prima del particolare) oppure secondo la sensazione (i particolari stanno prima degli universali); sono poi anteriori le proprietà delle cose anteriori; infine, anteriori sono le cose secondo la natura e secondo la sostanza (il sostrato e la sostanza vengon prima degli attributi; le cose sono anteriori per la potenza, posteriori per l'atto);

* dunamiV (potenza, possibilità, possibile): principio di movimento, principio per cui la cosa è mossa, capacità di condurre a termine una cosa bene o secondo volontà, la capacità di una cosa di essere mutata in bene, lo stato per cui le cose sono immutabili in peggio; impotente è invece ciò che corrisponde all’impotenza oppure ciò che corrisponde all’impossibile (dove impossibile è ciò il cui contrario è necessariamente vero);

* poson (quantità): quantità è ciò che è divisibile in parti ad esso interne, di cui ciascuna è un qualcosa di determinato; la quantità può essere a) numerabile (e allora è una pluralità), b) misurabile (e allora è una grandezza). Inoltre, ci sono quantità per sé (la linea) e quantità per accidente (il tempo e il movimento);

* poion (qualità): differenza della sostanza di una cosa, ciò che appartiene all’essenza del numero, le affezioni della sostanza soggette a mutamento, la virtù il vizio il bene il male;

* proV ti (relazione): relative sono quelle cose che stanno fra loro 1] come ciò che eccede rispetto a ciò che è ecceduto, 2] come l’agente rispetto al paziente, 3] come il misurabile rispetto alla misura;

* teleion (perfetto): perfetto (o completo) è ciò che ha tutte le parti che deve avere, ciò che non è superato da altro nell’abilità che gli è propria, ciò che possiede il fine che gli compete;

* peraV (limite): limite è il termine estremo di ogni cosa, la forma di una grandezza, il fine di ogni cosa, la sostanza delle cose;

* to kaq’ o / to kaq’ auto (ciò per cui / per sè): "ciò per cui" designa l’essenza di ogni cosa, il sostrato, la causa finale, la causa efficiente, la posizione; "ciò che è per sé" significa invece l’essenza, le note nell’essenza, le proprietà originarie di una cosa, ciò che non ha altra causa fuori di sé, ciò che appartiene ad un solo tipo di soggetto;

* diaqesiV (disposizione): disposizione vuol dire ordinamento di parti a) secondo il luogo, b) secondo la potenza, c) secondo la forma;

* exiV (abito): abito significa 1] l’attività di ciò che possiede e di ciò che è posseduto; 2] la disposizione per la quale una cosa è ben o mal disposta, 3] ciò che è parte di una disposizione del tipo tratteggiato sopra;

* paqoV (affezione): affezione significa una qualità per cui una cosa può alterarsi, le alterazioni medesime già in atto, le alterazioni dannose, le grandi sventure;

* sterhsiV (privazione): privazione designa a) una cosa priva di qualche caratteristica che dovrebbe (o potrebbe) avere per natura in un dato momento, b) quando c’è sottrazione violenta di qualcosa, c) quando troviamo la a privativa, d) quando una cosa è difficile a farsi, e) quando vi è assoluta mancanza di una cosa;

* to ecein (l’avere): avere significa tenere in propria balia, l’avere da parte del ricettacolo ciò che è nel ricettacolo, il contenere del contenente rispetto al contenuto, tenere qualcosa in modo tale che non possa muoversi;

* to ek tinoV einai (il derivare da qualcosa): derivare vuol dire 1] il derivare dal proprio sostrato, 2] il derivare da causa efficiente, 3] derivare dall’insieme di materia e forma, 4] derivare dalla forma, 5] il derivare da una parte delle cose appena indicate, 6] il derivare temporalmente da un evento;

* meroV (parte): parte significa ciò in cui la quantità è divisibile, ciò in cui la forma è divisibile, ciò in cui il tutto è divisibile, gli elementi che costituiscono la definizione;

* olon (intero): intero vuol dire ciò che non manca di alcuna parte, ciò che contiene le cose che contiene, quando le parti mutano senza produrre differenze;

* kolobon (mutilo): vengono presi in esame i requisiti che una cosa deve avere per potersi dire mutila (dev’essere una quantità, dev’essere continua, dev’essere privata di una parte non essenziale);

* genoV (genere): genere indica la generazione continua di esseri della stessa specie, la stirpe, il sostrato delle differenze, il costitutivo primo delle definizioni;

* yeudoV (falso): falso indica una cosa falsa, una cosa non unita o non unibile (perché illusoria), una enunciazione o una nozione falsa, un uomo che ama mentire;

* sumbebhkoV (accidente): accidente è ciò che può essere detto di una cosa e le appartiene ma non sempre o per lo più; ma è anche ciò che inerisce ad una cosa pur non rientrando nella sua essenza.

E’ evidente come tutti questi termini siano focali nell’indagine che Aristotele ha fin qui condotto e condurrà oltre: troviamo l’uno, la sostanza, le cause, e molti altri. Puo’ sembrar strano, almeno al lettore moderno, che venga improvvisamente interrotta la ricerca sulla metafisica e ci sia una pausa in cui viene delineato un lessico filosofico: ciò risulterà più comprensibile se facciamo riferimento al valore polisemantico e troppo spesso ambiguo di quei termini; sicchè pare quasi che Aristotele abbia voluto momentaneamente sospendere la sua indagine per delucidare quelle parole poco chiare, gettando luce – una volta per tutte – sui reali significati da attribuire ad esse. L’indagine aristotelica riprende il suo cammino con il sesto libro, che si apre all’insegna di una netta divisione tra le scienze e con l’assoluta preminenza della metafisica, ora però intesa come teologia: tutte le scienze, pur nella loro fondamentale importanza, sono segnate dall’imprescindibile limite di indagare esclusivamente su porzioni che abbracciano una parte della realtà (così la matematica si occupa dei numeri, la fisica del mondo sensibile, e così via), mentre l’investigazione metafisica investe l’essere in quanto essere ed ha per oggetto proprio le cause e i princìpi dell’essere stesso, nonché l’essenza: quest’ultima, infatti, è dalle altre scienze data per scontata, cosicchè esse partono da essa senza dimostrarla. La metafisica dimostra princìpi validi in assoluto, per tutto l’essere; le altre scienze, viceversa, si occupano di princìpi valevoli solamente per determinati ambiti dell’essere: esse, poi, fanno uso di postulati, ossia accettano princìpi senza dimostrarli, mentre invece la metafisica ("filosofia prima") rende conto di ogni cosa e, soprattutto, dell’essenza e della sostanza. Aristotele, a differenza di Platone, prospetta un’incredibile varietà di scienze, ciascuna dotata del proprio campo di indagine: le scienze possono essere di tre tipi, a) teoretiche (fisica, matematica, metafisica) b) poietiche c) pratiche (etica, politica) ed è partendo da questa tripartizione che muove ora lo Stagirita. La fisica si occupa di enti esistenti di per sé e dotati di materia e movimento; la matematica ha per oggetto enti non esistenti di per sé ma immobili. Infine, la terza e la più elevata delle scienze teoretiche è quella che si occupa di enti separati (esistenti di per sé) e immobili, quindi né materiali né sensibili: si tratta della teologia. La "filosofia prima", dunque, pare ora passare da scienza universalissima, occupantesi dell’essere in quanto essere, a scienza "particolare" (teologia), che si occupa esclusivamente dell’immobile e dell’immateriale. Aristotele si accorge di questa contraddizione e cerca di superarla: non c’è alcuna contraddizione, perché la filosofia prima è universale e lo è proprio in quanto si occupa della sostanza sovrasensibile (Dio, il "motore immobile"), la quale altro non è se non "sostanza prima"; da ciò consegue che la teologia è necessariamente "filosofia prima" e, poiché "prima", le compete l’indagine di tutto l’essere e delle proprietà che ad esso competono. Ribadito dunque, con rinnovato vigore, come il compito della "filosofia prima" (intesa sia come teologia sia come metafisica) sia l’investigazione sull’essere, Aristotele passa concretamente alla trattazione dell'essere, riprendendo molti punti dei libri precedenti e, soprattutto, la distinzione operata nel libro quinto tra 1) essere accidentale, 2) essere come "vero" (e non-essere come "falso"), 3) essere come categorie, 4) essere come atto (enteleceia) e potenza (dunamiV). Sono questi i quattro significati precipui dell’essere: partendo dal primo – essere "accidentale" -, lo Stagirita nota come esso non possa assolutamente costituire l’oggetto proprio della metafisica per due ordini di ragioni: a] perché si tratta di un essere "debolissimo": di esso non può esserci non-essere, dal momento che le cose naturali (che sono esseri sostanziali) si generano e si corrompono, mentre questo non avviene nell’accidente. Si tratta allora di chiarire quale sia la natura dell’accidente: e Aristotele distingue rigorosamente tra esseri che sono "di necessità e sempre" (ex anagkhV kai aei) ed esseri che sono "per lo più" (epi to polu). Ma se non tutto avviene necessariamente ed esistono cose che avvengono "per lo più" (e non sempre), allora esisteranno anche esseri che sono solo "talvolta" (pote). Da ciò deriva che l’accidente, propriamente, non è né sempre né per lo più, ma talvolta: "per esempio, né sempre né per lo più il bianco è musico; ma, poiché talvolta accade, allora sarà per accidente" (E 2 1027 11). La causa dell’accidente viene da Aristotele individuata nella materia, che – in quanto essere potenziale ed indeterminato – dà luogo alle possibilità che qualcosa sia in modo diverso dal sempre o dal per lo più; b] dell’essere "accidente" – è facile arguirlo - non può esserci scienza alcuna, giacchè la scienza riguarda ciò che è sempre (aei) o per lo più (epi to polu): se così non fosse, come sarebbe possibile imparare ed insegnare ad altri? Del resto, che non possa esserci scienza dell’accidente, lo attesta il fatto stesso che né la scienza pratica, né la poietica né la teorica si occupano di esso. Tuttavia, se esistono gli accidenti, allora vorrà dire che esisteranno anche cause accidentali, cioè diverse da quelle che producono ciò che è "sempre" o "per lo più": per chiarire questo punto, Aristotele ricorre ad esempi concreti, in riferimento ad eventi sia passati sia futuri; egli mette in luce come, risalendo nella catena delle cause ed effetti, si giunga ad "un certo evento" da cui prende le mosse la catena dei successivi eventi. Tale "certo evento", pertanto, costituisce la causa di essi, ma non è tale da possedere una determinata e precisa ragione d’essere: è un qualcosa che esula da ogni regola necessaria ed è, dunque, fortuito (potrebbe verificarsi come non verificarsi). Ma questo evento – causa dell’accidente – rientra nella sfera delle cause formali, finali o efficienti? Aristotele lascia irrisolto questo interrogativo, poiché esso richiederebbe un’apposita trattazione: sia sufficiente l’aver stabilito il funzionamento dell’ "accidentale", il quale impera nell’agire umano, giacchè ogni nostra azione potrebbe avvenire diversamente da come avviene (a differenza di quanto avviene nel mondo che sta sopra la luna). Aristotele, in chiusura del libro sesto, rivolge l’attenzione all’essere concepito come "vero" e al non-essere come "falso": il vero sta nel connettere le cose connesse (o anche nel dividere quelle divise), il falso sta nel dividere le cose non divise (o nell’unire quelle non unite); ma tutto questo avviene solo all’interno della mente umana e, perciò, l’essere come vero e il non-essere come falso si riducono ad "affezioni" della mente e da ciò consegue che, oltre all’essere come accidente, anche l’essere come vero non merita di essere oggetto dell’indagine del metafisico: "questi modi di essere dobbiamo dunque lasciarli da parte e, invece, dobbiamo indagare le cause ed i princìpi dell’essere in quanto essere" (E 4 1028 a 3). Agli altri significati dell’essere è in buona parte dedicato il libro settimo, che si apre con la constatazione che "to on legetai pollacwV" ("l’essere ha molteplici significati"): se nel sesto libro si erano trattati i significati "deboli" dell’essere (accidentale e come vero), ora si prendono in esame quelli "forti", in primo luogo l’essere delle categorie. La prima cosa da notare è che, pur essendo dieci, tutte le categorie, nel loro essere, dipendono direttamente dall’essere della prima, che è la sostanza (ousia): di un soggetto, per esempio Socrate, ci si può chiedere che cos'è o quali sono le sue qualità o quanto è alto o dov'è e così via e le risposte a queste domande indicano ciò che si può predicare del soggetto. Ognuna di esse indica un tipo diverso di predicati, ciascuno dei quali è una categoria, ossia un modo di kathgoreuein ("predicare") intorno al soggetto. Secondo Aristotele esse sono dieci: sostanza (per esempio, Socrate o uomo), quantità (un metro e mezzo), qualità (bianco o filosofo), relazione (figlio di Sofronisco), luogo (nel carcere), tempo (l'anno della morte), situazione (star seduto), avere (indossare il mantello), agire (bagnare), subire (essere bagnato). Classificare queste categorie o predicati equivale, per Aristotele, a classificare cose o eventi: per esempio, dire che Socrate è nel carcere, dove la categoria di luogo è predicato del soggetto Socrate, comporta che il carcere è un luogo. Il mondo stesso, allora, si configurerà agli occhi di Aristotele come un insieme di sostanze individuali (Socrate, la casa, il cavallo, ecc), ciascuna delle quali è un todh ti, un "questa cosa qui" che ho dinanzi. Tutte le altre categorie esistono in riferimento alla categoria di sostanza: se non ci fosse quella, non potrebbero nemmeno esserci esse. Infatti, forse che potrebbe esistere il "bianco" se non ci fosse una sostanza a cui inerire? Similmente, potrebbe esistere "l’essere alto un metro e mezzo" se non in riferimento ad una sostanza (ad esempio, Socrate)? Certo che no, risponde Aristotele. Da tutto ciò deriva che il problema dell’essere può e deve essere inteso come problema della sostanza, cosicchè la domanda "che cos’è l’essere?" deve essere letta come "che cos’è la sostanza?" ed è, di fatto, ciò che hanno fatto sempre anche i filosofi precedenti; Heidegger noterà come l’intuizione di Aristotele, ossia l’esigenza di indagare l’essere in quanto essere, è brillante, ma il filosofo greco ha peccato quando dall’indagine dell’essere è scivolato a quella della sostanza. Aristotele, nel tentativo di connotare la sostanza, fornisce una miriade di definizioni, che spesso sembrano perfino contraddittorie: il primo problema ch’egli si pone è di marca teologica e consiste nel domandarsi di qual genere siano le sostanze esistenti. Dobbiamo ammettere che esistano solo sostanze "materiali", cioè di genere sensibile, o è meglio ipotizzare che, accanto ad esse, ve ne siano anche di sovrasensibili? Questa problematica era già affiorata nel terzo libro, quello delle aporie, in cui la tesi "naturalistica" di chi non vedeva altra sostanza all’infuori di quella materiale era contrapposta all’antitesi platonica del mondo delle idee. Non sembra sbagliato sostenere che è questo il problema centrale della "Metafisica", quello intorno al quale ruota l’intera opera, e che troverà una definitiva soluzione in positivo nel libro dodicesimo, quando verrà ammessa l’esistenza di un Dio assolutamente immateriale. Ma, oltre a chiarire di quale genere sia la sostanza (materiale? sovrasensibile? ambo le cose?), è bene domandarsi anche che cosa essa sia: che cos’è la sostanza? E’ materia? E’ forma? E’ sintesi delle due cose (sunolon)? A rigore, nota Aristotele, dev’essere prima affrontato il problema del "che cosa" sia la sostanza rispetto a quello del "di che genere" essa sia: poiché è solo muovendo dalla comprensione dell’essenza di una cosa che si possono predicare le caratteristiche che le competono. L’indagine di Aristotele, come sempre, parte anche in questo caso dai fainomena, ossia dalle cose come sembrano: e, sotto questo profilo, a tutti (filosofi passati e presenti) sembra che le cose sensibili siano sostanze, cosicchè sarà opportuno avviare l’investigazione a partire da quelle. La domanda sull’essenza della sostanza è duplice: a) quali sostanze esistono? (e la risposta verrà data nel libro dodicesimo); b) che cos’è la sostanza in generale? A questa seconda domanda, lo Stagirita prova a rispondere in questo libro, anche se – in verità – le risposte ch’egli fornisce tendono ad aprire più problemi di quanti non ne risolvano. In prima istanza, pare che cinque possano essere le definizioni di sostanza: 1] ciò che non inerisce ad altro e che, pertanto, non si predica di altro; 2] ciò che sussiste separatamente dal resto (cwriston); 3] ciò che è un alcunchè di determinato (todh ti); 4] ciò che è dotato di intrinseca unità (una molteplicità disposta in maniera unitaria); 5] ciò che è dotato di atto e di attualità (energeia). In base alle cinque definizioni fornite, si potrà dire che la materia (ulh) è sostanza? Se guardiamo alla 1° definizione, parrebbe di sì: la materia, infatti, non inerisce ad altro né di altro si predica; eppure, concentrando l’attenzione sulle successive definizioni, si apre un ventaglio di problemi non da poco: la materia non può sussistere separatamente dal resto (come vorrebbe la 2° definizione), giacchè la troviamo sempre congiuntamente con la forma (non troviamo mai materia amorfa). La 3° definizione, poi, dice che dev’essere qualcosa di determinato la sostanza: ma la materia non lo è, o, meglio, è determinata solo nella misura in cui è accompagnata dalla forma; e non è neppure qualcosa di intrinsecamente unitario (4° definizione), poiché se a noi pare unitaria è solo in virtù della forma. Infine, non risponde neppure alle richieste della 5° definizione: infatti la forma, non la materia è atto; dal canto suo, la materia è potenza: infatti, un blocco di marmo (materia che supponiamo priva di forma) è potenzialmente tantissime cose (una statua, una mensola, ecc), ossia può (dunatai) diventare una statua, una mensola, ecc. a patto che intervenga la forma: la quale farà sì che la materia, da statua in potenza, diventi statua in atto. Da questo percorso fra le note definitorie della sostanza si evince come la materia sia sostanza solo in senso debolissimo (cioè solo stando alla 1° definizione). A loro volta, la forma (morfh) e il sinolo (sunolon) rispondono alle richieste delle cinque definizioni? Sì, risponde Aristotele, e pertanto possono essere tranquillamente qualificati come sostanze. Al contrario, le Idee di Platone – ridotte dallo Stagirita a meri "universali" – non rientrano affatto nel novero delle sostanze. Da un punto di vista strettamente empirico, il sinolo sembra essere la sostanza per eccellenza, ma, se spostiamo il baricentro dell’indagine su un piano metafisico, ci accorgeremo di come la forma sia principio, causa e ragion d’essere, cioè fondamento, con la conseguenza che il sinolo stesso è da essa causato e fondato. Appare dunque evidente come per noi, empiricamente, il sinolo sia la sostanza in senso pieno, giacchè abbiamo sempre e comunque a che fare con composti (aggregati di materia e forma), ma come "in sé e per natura" – ovvero metafisicamente – sia la forma a rivestire il ruolo di sostanza in senso preminente. In questo modo, viene istituita una specie di scala gerarchica in base alla quale la materia è la sostanza in senso "debole", il sinolo è un gradino al di sopra, poiché costituito da materia e forma; e, infine, al vertice della scala, sta la forma, in quanto principio, ragion d’essere e causa del sinolo. A questo punto, Aristotele fa un’affermazione quasi solenne e mistica, asserendo che la forma è "la causa prima dell’essere", giacchè è la forma che, collegando e determinando gli enti materiali, fa essere le varie cose. L’inizio del libro ottavo vuol presentarsi come una sorta di ricapitolazione dei punti discussi nel libro precedente, un’appendice ragionata: la ricerca si è spostata dall’essere alla sostanza, sulla cui natura però permangono forti dubbi e ambiguità, tant’è che – al di là degli elementi comuni ravvisati da tutti i pensatori – ogni filosofo l’ha intesa in modo pressochè diverso da ogni altro. La materia – definita nel libro settimo come una sostanza "debole" – è ora additata da Aristotele come di fondamentale importanza per poter capire il mutamento a cui son soggetti gli enti fisici, poiché – affinchè ci sia mutamento - deve per forza esserci materia: il mutamento (metabolh) consiste appunto nel passaggio da un sostrato ad un altro. Come potrebbe verificarsi il mutamento locale, quello di accrescimento e di diminuzione, quello di generazione e corruzione, nonché quello di alterazione, senza la materia? Rispetto al settimo, l’ottavo libro guarda la materia e la forma alla luce della distinzione tra potenza e atto: la superiorità della forma sulla materia viene ribadita nella nuova veste della superiorità dell’atto sulla potenza; sembrerebbe che ogni cosa, per passare in atto, debba prima attraversare lo stadio della potenza, ma questo non è vero in assoluto: al contrario, ogni cosa in potenza, per poter passare in atto, necessita l’azione di un qualcosa che sia già in atto (così l’uovo – gallina in potenza – ha bisogno dell’azione di una gallina già in atto per poter raggiungere anch’esso lo stato attuale). Aristotele spiega che l’essenza (ousia) e la forma (morfh) coincidono, ovvero che l’essenza e la cosa intesa come forma sono la stessa cosa (così l’essenza dell’anima e l’anima sono un tutt’uno). Il libro nono è dedicato pressochè interamente alle nozioni di potenza (dunamiV) e atto (enteleceia): sembrerebbe, allora, non avere rapporti con le parti precedenti dell’opera, ma non è così; infatti, se guardiamo ai vari significati dell’essere, tracciati nel libro sesto, ci accorgiamo che, tra i tanti, campeggiava anche quello dell’essere secondo la potenza e l’atto. Ora Aristotele concentra proprio su tale problematica la propria attenzione: nel libro sesto aveva trattato dell’essere nei suoi significati "deboli" (accidente e vero), nel settimo e nell’ottavo aveva invece indagato sull’essere come categoria e come sostanza. Ora, a conclusione del percorso preannunciato nel libro sesto, non resta che esaminare l’essere come potenza e come atto: per capire che cosa sia l’essere secondo potenza e atto sarà tuttavia opportuno comprendere preventivamente che cosa realmente si debba intendere per potenza e atto, in modo tale da dissipare ogni dubbio a riguardo. Abbiamo già accennato a come l’atto stia prima della potenza (perché ogni cosa in potenza ha bisogno di qualche cosa in atto che la faccia a sua volta passare in atto), ma ciò non toglie che nella sua trattazione Aristotele si soffermi prima sulla potenza, poiché siamo abituati a vedere le cose prima in potenza, e poi in atto (pensiamo all’uomo come attualizzazione del bambino: il bambino, per noi, viene cronologicamente prima, giacchè ciascuno, prima di diventare uomo, deve passare per la fase di bambino). Quali sono, dunque, i significati di "potenza"? Innanzitutto essa significa il principio di movimento o mutamento attivo che è in un altro o nella cosa in quanto altra; in secondo luogo, significa il principio di movimento o mutamento passivo che è in un altro o nella cosa in quanto altra; in terzo luogo, "potenza" significa la proprietà per cui un ente è in grado di non patire mutamento in peggio, cioè distruzione per opera di un altro ente o di sé in quanto altro. Infine, "potenza" designerà tanto la capacità di agire o patire in generale, quanto quella di agire o patire in modo conveniente. Ma potenza attiva e potenza passiva finiscono per coincidere, soprattutto se pensiamo che un qualsivoglia ente è dotato di potenza se può far patire un altro ente o patire esso stesso ad opera di un altro ente. Impotenza sarà invece la privazione (sterhsiV) di potenza. Esistono poi potenze razionali (dunameiV meta logou) e potenze irrazionali (dunameiV alogoi), dove la differenza sta nel fatto che quelle razionali sono reperibili esclusivamente in quegli enti equipaggiati della ragione (rientrano in questa categoria anche le scienze poietiche); solo le potenze razionali, poi, possono produrre ambedue i propri contrari, mentre le irrazionali solo uno: così il freddo (potenza irrazionale) può produrre solo il freddo e in nessun caso il caldo, mentre la medicina (potenza razionale) è al contempo scienza della salute e della malattia. Ciò comporta che, nel caso delle potenze razionali, intervenga un principio tale da decidere l’attualizzazione di uno dei contrari: tale principio risponde al nome di desiderio e di scelta razionale. La potenza, oltre ad essere principio del movimento, corrisponde alla materia: tuttavia, ogni movimento è atto e, contemporaneamente, la forma e la sostanza sono "atto" (energeia e enteleceia hanno il medesimo significato). Ciò però non comporta che atto e potenza si identifichino, come invece credevano i Megarici, ad avviso dei quali c’è la potenza quando c’è l’atto (per cui ha potenza di costruire solo chi sta costruendo in atto). La dottrina megarica, se accettata, porta a conseguenze assurde, in quanto – se la potenza è l’atto – nessuno potrà mai possedere alcuna arte, dal momento che il costruttore, non appena smette di costruire, viene a perdere la sua arte, e così via; inoltre, non potrà esistere alcun sensibile (freddo, caldo, ecc) se non sarà sentito in atto e, contemporaneamente, non sarà possibile dire che possiede sensibilità, se non chi sente in atto (chi cessa di vedere o sentire diventa così immediatamente cieco o sordo). Infine, dall’ammissione della teoria megarica, consegue che ciò che non è attualmente viene ad essere impossibile (impossibile ogni movimento, ogni forma di divenire). Aristotele evince dalle assurdità a cui conduce la dottrina megarica la necessità di distinguere potenza e atto come due realtà esistenti e diverse fra loro. Ma bisogna stare attenti quando si adopera la nozione di potenza, poiché si rischia di cadere in un duplice errore: 1] affermare che una cosa non è in potenza se non è già in atto; 2] affermare che una cosa è in potenza ma non si realizzerà mai. Dire che una cosa ha potenza (dunamiV) equivale a dire che è possibile (dunaton), ossia che può concretizzarsi, ed affermando che ciò che è in potenza non potrà mai realizzarsi (cioè passare in atto) equivale ad eliminare l’impossibile (adunaton): infatti, se dico che un bambino può diventare uomo, ma non lo diventerà mai, sto di fatto negando ogni caso di impossibilità. Ciò significa che la possibilità reale di una cosa e la sua attualizzazione risultano inscindibili, giacchè, data l’una, è insieme data pure l’altra. Aristotele nota che ci sono potenze congenite (che ci accompagnano fin dalla nascita: ad es. le potenze dei sensi) e potenze acquisite (che sono poi quelle razionali, acquisibili con il ragionamento, con l’abitudine e con l’insegnamento: ad es. le arti e le scienze poietiche). Ora, portata a compimento la trattazione della potenza in relazione al movimento (e i brevissimi cenni all’atto), lo Stagirita analizza con attenzione l’atto e la potenza in chiave metafisica: l’atto viene ora definito come l’esistenza stessa della cosa e ciò implica ch’esso possa essere definito esclusivamente presupponendolo. L’esempio a cui ricorre Aristotele è quello della statua in legno di Ermete: in potenza, essa è un blocco di legno che può diventare un mare magnum di cose (un tavolo, una sedia, una statua, ecc), in atto esso diventa una statua scolpita. Ma, nonostante la puntigliosità riposta in quest’esempio, Aristotele non si sente ancora soddisfatto e, pertanto, si propone di distinguere con maggiore attenzione le cose quando sono in potenza dalle cose quando sono in atto e, per fare ciò, si avvale di un argomentare serratissimo: quand’è che una cosa è in potenza? Prestando la nostra attenzione alla sfera dell’arte, diremo che una cosa è in potenza quando l’artista voglia agire e non si frappongano impedimenti esterni; fuor dal campo dell’arte, quand’è che le cose di natura (aventi in sé il principio della generazione) sono in potenza? La loro attualizzazione – spiega Aristotele – dipende dalla loro stessa natura, il che significa ch’esse sono in potenza quando non c’è nessun impedimento esterno. Così sarà lecito affermare che la terra non è uomo in potenza, ma potrà esserlo qualora diventi seme e quest’ultimo sia stato immesso nel corpo della femmina: in questa situazione, il seme potrà dirsi uomo in potenza. Dal concetto di potenza ora delineato si ricava come, quando diciamo che il tavolo è fatto di legno, il legno è un tavolo in potenza: sicchè, se dico X è fatto di Y, allora potrò anche dire che Y è un X in potenza. Ma, stando a quanto Aristotele ha finora detto, sembrerebbe che la potenza goda di priorità rispetto all’atto, il che è l’esatto contrario di quanto desidera sostenere lo Stagirita: ed è per questo che, nel paragrafo VIII, imbandisce una serie di argomentazioni a sostegno della sua tesi, spiegando come l’atto sia anteriore alla potenza a) per la nozione (possiamo sapere di che cosa X è potenza solo quando sappiamo l’atto cui X tende: ad es., posso sapere che cosa è l’uovo solo se so che cosa è la gallina) , b) per il tempo (se considero l’individuo, allora la potenza sta prima, giacchè, prima di essere uomo in atto, è uomo in potenza; ma se considero la specie dell’individuo, allora vien prima l’atto, poiché l’individuo in potenza necessita sempre di un individuo in atto per passare a sua volta in atto), c) per la sostanza (l’atto, in quanto forma, è regola, principio e condizione della potenza; e inoltre, essendo l’atto il modo d’essere tipico degli enti incorruttibili, sarà anteriore alla potenza). L’atto è, secondo Aristotele, superiore alla potenza non solo concettualmente, ma anche assiologicamente: l’atto della salute è migliore della potenza della salute, giacchè quest’ultima può, passando in atto, sia diventare salute sia malattia. Se ne dovrebbe tuttavia ricavare che, invertendo il discorso, l’atto della malattia è peggiore della potenza della malattia, giacchè quest’ultima, passando in atto, può sì diventare malattia, ma anche salute. Aristotele si sbarazza di questa possibile obiezione facendo leva sulle entità incorruttibili: esse – per loro natura puro atto – non sono affette né da male né da mancanza e, pertanto, ciò significa che il male e la mancanza sono componenti proprie della potenza. Perfino in matematica l’atto sta prima della potenza, tant’è che i teoremi geometrici si dimostrano con l’attività, ovvero con quelle opportune divisioni e operazioni che li rendono evidenti in atto. Il nono libro si chiude con un ritorno di Aristotele sul problema dell’essere come vero e del non-essere come falso: il vero – dice ora lo Stagirita – risiede nel rispecchiare le cose come stanno, cosicchè se noi pensiamo le cose come esse stanno, allora siamo nel vero; chi parte dal presupposto che noi pensiamo le cose in un modo e, di conseguenza, esse stanno in quel modo, cade in errore (stoccata a Platone, ma estendibile – ante litteram - anche a Kant). Il libro decimo prende le mosse dalla quarta aporia che Aristotele ha presentato nel libro terzo: l’indagine metafisica verte esclusivamente intorno alle sostanze o, piuttosto, anche intorno alle proprietà che ad esse ineriscono? Su quale scienza, poi, grava il compito di investigare sul medesimo, sul diverso, sul simile, sul dissimile, sulla contrarietà, sul prima, sul poi e sulle altre nozioni di questo tipo? Il libro quarto risolveva il problema in maniera positiva, giocando la carta della convertibilità dell’essere e dell’uno e quella della connessione di tutte le nozioni citate (diverso, simile, dissimile, ecc) con l’uno, cosicchè alla scienza che studia la sostanza e l’essere compete anche lo studio di tali nozioni. Proprio sull’uno e sui concetti ad esso connessi proietta la propria indagine il libro decimo: infatti, dopo aver esaminato attentamente l’essere in quanto essere e nella molteplicità dei significati in cui si articola, è bene prendere in considerazione alcune di quelle nozioni che, poiché si riferiscono all’uno, competono all’essere (l’uno e l’essere sono convertibili) e, pertanto, hanno piena cittadinanza in sede metafisica. Aristotele rimanda, per una più acuta comprensione dell’argomento, ad un suo scritto - andato perduto – dal titolo "La distinzione dei contrari", a cui peraltro già rimandava nel libro quarto; se l’essere è caratterizzato da una incredibile molteplicità di significati ed è convertibile con l’uno, ciò significa che anche l’uno avrà tale molteplicità di significati ed è proprio su questi (intesi a mo’ di nozioni) che viene proiettata ora l’attenzione dello Stagirita. L’uno ha quattro significati (da non confondersi però con l’"essenza dell’unità"): è il continuo, è ciò che è un tutto, è l’unità specifica, è l’unità numerica. Successivamente, Aristotele si affatica molto per spiegare come l’uno non sia sostanza ma predicato (a dispetto di quel che credevano i Platonici e i Pitagorici): come l’essere, anche l’uno è un universale e, in quanto tale, non può in alcun modo essere sostanza; e poi, così come l’essere, in tutte le categorie, è essere di qualche cosa di determinato, ugualmente l’uno, in ogni categoria, è sempre determinato, sicchè potrà essere non già "sostanza per sé", bensì una "determinata sostanza" (un uomo, un cavallo, ecc). Dopo aver successivamente esaminato il rapporto che intercorre tra l’uno e il molteplice (rapporto che verrà anche ripreso più avanti), lo Stagirita passa a considerare la contraddittorietà, che è la massima differenza che ci possa essere e che, in quanto tale, può aver luogo solo fra due termini (i contrari sono così sempre due). Nei paragrafi che vengon dopo, egli si addentra sempre più nello specifico, quasi come se la sua speculazione tendesse ad avvitarsi su se stessa: tratta dell’opposizione dell’uguale al grande e al piccolo, dell’opposizione dell’uno ai molti (riprendendo una tematica prospettata in precedenza), dei termini intermedi, della "differenza specifica" (data da una contrarietà nell’essenza), e, infine, della differenza che distingue il corruttibile dall’incorruttibile (operando a tal proposito un’ennesima distruzione della teoria platonica delle Idee). Il libro undicesimo si presenta al lettore come un riassunto generale dei libri precedenti: l’inizio si riallaccia esplicitamente al libro primo, poiché Aristotele ribadisce che la sapienza è scienza avente per oggetto i princìpi (la metafisica si occupa dell’essere in quanto essere, a differenza di come operano le altre scienze), mentre, subito dopo, lo Stagirita riprende dal libro terzo la problematica delle aporie e dal quarto il tema della molteplicità dei significati dell’essere. Sembra quasi che Aristotele si stia qui spianando il terreno per il libro successivo, al cui centro vi sarà quella sostanza immobile, eterna e trascendente che è Dio: non a caso, lo stesso Stagirita apre qualche spiraglio qua è là, da cui è possibile presagire l’incombere dell’argomento che starà alla base del successivo libro. Ciò che risulta però più sorprendente è la forte presenza di passi tratti dalla "Fisica" e dislocati un po’ ovunque: in particolare, gli ultimi due paragrafi si riagganciano a tale scritto e, soprattutto, all’essere come potenza e atto in connessione con la dottrina del movimento e del mutamento, lasciando ai primi capitoli del libro seguente il compito di fare il punto sulla dottrina della sostanza. Ci imbattiamo anche in una sintetica trattazione dell’infinito (apeiron) – rigorosamente condotta in funzione della potenza e dell’atto – , la quale pare ancora una volta un preludio al libro dodicesimo, in cui Aristotele scarterà l’ipotesi che Dio sia infinito poiché, se lo fosse, non potrebbe essere atto puro: l’infinito, infatti, esiste sempre e solo potenzialmente (pensiamo all’infinito numerico). Vengono proposte diverse definizioni di infinito (che ritroviamo nel libro III della "Fisica"): è infinito ciò che non è possibile percorrere (così come la voce è invisibile), ciò che si può percorrere ma senza fine, ciò che difficilmente si può percorrere, ciò che è percorribile ma non è percorso; inoltre c’è infinito per addizione (prosqesiV) oppure per sottrazione (afairesiV). Viene subito precisato come un "infinito in sé", distinto dalle cose sensibili, non possa esistere, poiché altrimenti dovrebbero pure esistere numeri e grandezze in sé (chiara allusione a Platone); a quest’argomentazione, Aristotele ne aggiunge altre, che mettono in luce come l’infinito esista solo potenzialmente. Scendendo più nei particolari, il libro undicesimo mette l’accento su alcune questioni di primaria importanza: ad esempio, Aristotele spiega come matematica e fisica siano parti della filosofia (giacchè quest’ultima è scienza dell’essere in quanto tale), come il principio di non contraddizione non possa in alcun caso essere confutato, come l’accidente sia connesso al caso (su cui si sofferma soprattutto nella "Fisica"), come l’attività del motore in atto coincida con quella del mosso. Il libro dodicesimo pare essere il traguardo dell’intera "Metafisica", in quanto dà finalmente risposta a quelle domande che Aristotele si poneva fin dall’inizio dell’opera: viene infatti risolto quello che è stato definito come "il problema per eccellenza della metafisica", ovvero il problema teologico (che fa dell’ontologia una meta-fisica). Viene finalmente dimostrata l’esistenza di una sostanza sovrasensibile (metafisica appunto) e ne vengono delineate le caratteristiche essenziali, cosicchè il libro dodicesimo si configura come la mèta del percorso aristotelico, quel libro senza il quale l’intera "Metafisica" perderebbe il suo significato. Del resto, moltissimi dei concetti trattati nei libri precedenti si richiamavano, in qualche modo, ad una dimensione teologica: pensiamo alla difesa del principio di non contraddizione, o allo studio dei significati dell’essere o, ancora, alla trattazione della sostanza. Nel primo paragrafo, viene posto l’accento sull’esistenza di tre diversi tipi di sostanza: quella corruttibile (gli animali, le piante, ecc), quella sensibile incorruttibile (i cieli), e quella soprasensibile, immobile ed eterna (Dio); le prime due sostanze sono oggetto d’indagine, rispettivamente, della fisica e dell’astronomia; la terza della metafisica. Soffermando l’attenzione su quella sensibile, la caratteristica che meglio la contraddistingue è il suo essere soggetta al mutamento, il quale avviene fra contrari e presuppone l’esistenza di qualcosa che faccia da sostrato (passando da un contrario ad un altro); più che di "mutamento" sarebbe opportuno parlare di "mutamenti", giacchè ne esistono di quattro tipi: secondo la sostanza (generazione e corruzione), secondo la qualità (alterazione), secondo la quantità (aumento e diminuzione), secondo il luogo (spostamento). A mutare è la materia (senza di essa non ci sarebbe il mutamento), la quale è in potenza e, proprio in virtù di ciò, è ambedue i contrari e può mutare. I corpi celesti, però, non sono affetti da tutti e quattro i tipi di mutamento: anzi, essi sono oggetto esclusivamente del movimento di spostamento (giacchè li vediamo muoversi in cielo), e non cambiano né sostanzialmente né qualitativamente né quantitativamente. Riprendendo in buona parte quanto detto nel libro settimo, Aristotele si concentra ora sulla forma, la quale – come la materia – né si genera né si corrompe ma presiede al mutamento; affinchè esso si verifichi, è altresì necessario l’intervento della causa efficiente, ossia di un’altra sostanza avente lo stesso nome o la stessa natura di quella su cui agisce (in campo naturale, l’uomo genera l’uomo, il cavallo genera il cavallo; nel campo delle produzioni umane, la casa materiale deriva dalla forma di casa). E a questo punto, lo Stagirita ne approfitta per distruggere per l’ennesima volta la dottrina platonica delle Idee, mettendo in evidenza come la forma (che Platone aveva chiamato "Idea") non possa mai sussistere autonomamente e in maniera distaccata dalle cose: sicchè, non c’è la forma "uomo" di cui gli altri uomini sono imitazione, né c’è la forma "casa"; al contrario, la forma sta nelle cose stesse, che appunto sono "sinolo" di materia e forma, cosicchè la forma "uomo" non è esistente in maniera autonoma, ma è un’astrazione operata dalla nostra mente. Nel paragrafo IV, troviamo una spiegazione di come le cause e i princìpi delle cose siano individualmente diversi ma analogicamente identici: se in concreto i princìpi di cose diverse sono diversi, sono invece gli stessi per analogia, poiché ogni cosa ha una forma, una privazione e una materia. Al di là delle quattro cause, tuttavia, ne esiste una universale che ad esse è superiore: si tratta dell’essere assolutamente primo che muove ogni cosa, Dio. Poiché tutto ciò che non è sostanza esiste solo nella sostanza o in riferimento ad essa, allora le cause della sostanza sono, a maggior ragione, anche causa di tutto il resto e, in particolare, l’atto e la potenza costituiscono il principio dell’intera realtà; Aristotele chiarisce, a tal proposito, come all’atto si riducano la forma e la privazione, mentre alla potenza la materia, con la conseguenza che le cause efficienti sono potenze nel senso che sono forze capaci di agire e non nel senso in cui è potenza la materia (poiché da ciò deriverebbero conseguenze paradossali). Seguendo questo percorso, Aristotele si è sgombrato la strada e può ora, finalmente, introdurre la dimostrazione dell’esistenza di una sostanza soprasensibile, immobile ed eterna, che muove l’universo senza a sua volta essere mossa. Dopo aver spiegato come le sostanze abbiano priorità su tutti gli altri modi di essere, lo Stagirita nota che se esse fossero corruttibili, allora non esisterebbe nulla di incorruttibile; ma tale tesi è smentita dall’esistenza del tempo e del movimento, entrambi incorruttibili per loro natura. Ma per poter effettivamente argomentare in favore dell’esistenza del movimento incorruttibile, eterno e, quindi, continuo occorre dimostrare l’esistenza di un "principio motore", il quale – per poter produrre un moto eterno – deve essere eterno e – per poter produrre un moto continuo – deve essere sempre in atto. Ne consegue, pertanto, che il "primo motore" sarà atto puro ed eterno, privo di materia e di potenza, nonostante questa tesi possa in apparenza essere fatta scricchiolare dal fatto che – come abbiamo visto – la potenza vien prima dell’atto; però lo stesso Aristotele aveva precedentemente spiegato come è sì vero che le cose, per passare all’atto, debbano prima essere in potenza (la pianta in atto prima deve passare per lo stadio di seme, cioè di pianta in potenza), ma aveva altresì fatto notare come ogni cosa, per passare dalla potenza all’atto, necessiti dell’intervento di qualcosa già in atto, cosicchè – a rigore – l’atto sta prima della potenza (la gallina viene prima rispetto all’uovo). In tale prospettiva, Aristotele può criticare aspramente i naturalisti e i teologi per aver fatto derivare tutto dalla notte e dal caos (cioè dalla potenza), senza accorgersi che questi non si sarebbero potuti muovere senza l’azione di una causa già in atto; molto migliore appare, allora, l’interpretazione di Leucippo e di Platone - i quali ammisero un movimento eterno (che per l’appunto è atto) -, anche se difettosa nel momento in cui non seppero giustificare in alcun modo quanto sostenevano. Perfino Anassagora ed Empedocle colsero intuitivamente l’anteriorità dell’atto quando ammisero, rispettivamente, il NouV e l’Amore e l’Odio. Dopo questo breve excursus sulle altrui dottrine, Aristotele torna alla sua, mettendo in luce come, se l’atto vien prima della potenza, allora esistettero sempre le medesime cose; sorge tuttavia, a questo punto, un serio problema: se tutto è eternamente, come si spiegano la generazione, la corruzione e il fatto che le cose son sempre avvenute con la sostanza? Una via d’uscita per non incappare in un vicolo cieco sta nell’ammettere che a) la causa della costanza delle cose del mondo sia un qualcosa che agisce sempre nello stesso modo (tale è il primo cielo), b) la causa delle generazioni e delle corruzioni sia un qualcosa che agisce in maniera sempre diversa (tale è il sole, che, nel suo moto in cerchio obliquo, si avvicina e si allontana periodicamente alla terra). Infine, per spiegare la generazione, la corruzione e la loro regolarità, sarà sufficiente far riferimento al cerchio obliquo e al primo cielo. Quest’ultimo, però, che muove di moto continuo ed eterno, non può muovere se stesso, poiché tutto ciò che muove è mosso da altro (i medioevali diranno che "omne movens ab alio movetur"), cosicchè sarà necessario individuare un principio primo che muova restando immobile:

"Dal momento che è possibile che le cose stiano nel modo da noi prospettato -del resto, se si respinge questa nostra spiegazione, tutte le cose deriverebbero dalla notte o dal -tutto-insieme o dal non-essere - si possono ritenere risolte tutte le precedenti aporie; esiste, quindi, qualcosa che è sempre mosso secondo un moto incessante, e questo modo è la conversione circolare (e ciò risulta con evidenza non solo in virtù di un ragionamento, ma in base ai fatti), e di conseguenza si deve ammettere l'eternità del primo cielo. Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del primo cielo. Ma dal momento che ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c'è tuttavia un qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto". (L 6/7 1072 a 19-25)

Ma come è possibile che qualcosa causi il movimento senza a sua volta essere in movimento? Aristotele, per meglio chiarire come ciò sia possibile, ricorre all'esempio dell'oggetto amato, che è oggetto di desiderio e di amore e, quindi, corrisponde al fine a cui tendere: esso, pur non muovendosi, fa muovere l’amante, il quale prova amore e ad esso tende.

"Un movimento di tal genere è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è oggetto di pensiero. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata, sono tra loro identici. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello nel suo manifestarsi, mentre è oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità; ed è più esatto ritenere che noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per il solo fatto che noi la desideriamo: principio è, infatti, il pensiero. Ma il pensiero è mosso dall'intelligibile, e una delle due serie di contrari è intelligibile per propria essenza, e il primo posto di questa serie è riservato alla sostanza e, nell'ambito di questa, occupa il primo posto quella sostanza che è semplice ed è in-atto ( e l'uno e il semplice non sono la medesima cosa, dato che il termine uno sta ad indicare che un dato oggetto è misura di qualche altro, mentre il termine semplice sta ad indicare che l'oggetto stesso è in un determinato stato). Ma tanto il bello quanto ciò che per la sua essenza è desiderabile rientrano nella medesima categoria di contrari; e quel che occupa il primo posto della serie è sempre ottimo o analogo all'ottimo. La presenza di una causa finale negli esseri immobili è provata dall'esame diairetico del termine: infatti, la causa finale non è solo in vista di qualcosa, ma è anche proprietà di qualcosa, e, mentre nella prima accezione non può avere esistenza tra gli esseri immobili, nella seconda accezione può esistere tra essi. Ed essa produce il movimento come fa un oggetto amato, mentre le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse. E così, una cosa che è mossa può essere anche altrimenti da come essa è, e di conseguenza il primo mobile, quantunque sia in atto, può -limitatamente al luogo, anche se non alla sostanza- trovarsi in uno stato diverso, in virtù del solo fatto che è mosso; ma, poiché c'è qualcosa che produce il movimento senza essere, esso stesso, mosso ed essendo in atto, non è possibile che questo qualcosa sia mai altrimenti da come è. Infatti, il primo dei cangiamenti è il moto locale, e, nell'ambito di questo, ha il primato la conversione circolare, e il moto di quest'ultima è prodotto dal primo motore". (L 6/7 1072 a 25 – 1072 b)

Poiché tale principio è immobile, non potrà essere diversamente da come è: ciò significa che è necessario e ne dipendono il cielo e la natura.

"Il primo motore, dunque, è un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica col bene e, sotto questo profilo, è principio. Il termine 'necessario', infatti, si usa nelle tre accezioni seguenti: come ciò che è per violenza perché si oppone all'impulso naturale, come ciò senza di cui non può esistere il bene e, infine, come ciò che non può essere altrimenti da come è, ma solo in un unico e semplice modo. E' questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura". (L 6/7 1072 b 10-14)

Egli è vita, vita perfetta ed eccellente: è pensiero e, in quanto perfetto, pensa solo ciò che è perfetto, poiché se pensasse ad altro corromperebbe la propria perfezione; Egli, dunque, pensa a se stesso ed è "pensiero di pensiero" (nohsiV nohsewV). In questo modo, l’intelligibile cede il passo all’intelligenza, cosicchè in Lui intelligenza ed intelligibile finiscono per coincidere, con la conseguenza che la Sua vita consiste in tale attività noetica che Gli garantisce la massima felicità possibile, poiché nulla più del pensare rende felici. L’argomentazione di Aristotele è, sotto questo profilo, serratissima e si inerpica con agilità per sentieri impervi e difficili: se Dio è pensiero, non può pensare "nulla", altrimenti sarebbe nella stessa condizione del dormiente; allo stesso tempo, però, non può pensare nulla di superiore a Sé, giacchè è Egli stesso il vertice della realtà; se poi pensasse qualcosa di superiore, allora Egli non sarebbe più la sostanza eccellente. Al contrario, l’intelletto divino pensa esclusivamente ciò che è più – appunto – "divino", il che equivale a dire ch’Egli pensa ciò che non muta: infatti, "il mutamento è sempre verso il peggio" (eiV ceiron h metabolh, L 9, 1074 b 26) e ciò comporterebbe, tra l’altro, un movimento in Dio. Aristotele arriva a sostenere che la natura del pensare divino è atto puro, scevro da ogni potenzialità, poiché – se le cose stessero diversamente – l’ininterrotto pensare di Dio costituirebbe per Lui una fatica (il che è indiscutibilmente assurdo) e l’intelligibile che fa passare in atto l’intelligenza sarebbe migliore dell’intelligenza stessa (la quale non sarebbe più la cosa più eccellente). Vorrà allora dire che l’intelligenza divina non potrà far altro che pensare se stessa: ecco perché Dio è "pensiero di pensiero", tanto più che la coincidenza fra pensare e pensato è in Dio possibile e non contraddittoria poiché tutto ciò che non ha materia ammette la coincidenza in parola. Aristotele dice espressamente che l’oggetto del pensiero di Dio è "semplice", poiché immateriale, e in assoluta unità per l’intera eternità. Se poi l’intelligenza umana raggiunge il suo apice quando pensa non le parti, ma il tutto, allora – a maggior ragione – ciò varrà anche per Dio. Come Aristotele puntualizza nell’"Etica Nicomachea", la differenza fondamentale, per quel che riguarda l'attività noetica esercitata, tra Dio e il filosofo sta nel fatto che Dio può esercitarla ininterrottamente, mentre il filosofo – in bilico tra l’esser Dio e l’esser bestia – deve accontentarsi di pensare il più possibile, ma mai senza interruzioni, poiché, in quanto animale, ha esigenze biologiche, politiche ed economiche a cui far fronte: pertanto egli solo in pochi momenti gode della virtù divina, e, nella fattispecie, nei momenti di tempo libero (scolh). E' una posizione intermedia quella di Aristotele: il sapiente, infatti, è saldamente ancorato al divino per il fatto che gli oggetti del suo sapere sono divini (come Aristotele ha spiegato nel libro primo della "Metafisica"); infatti cerca di scoprire i princìpi e le cause che sono all'origine del mondo. Ma, sotto una luce diversa, la divinità stessa è l'esatta proiezione della vita del sapiente e la qewria è il Suo tratto essenziale.

"Ed esso è una vita simile a quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato (cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero nella sua essenza ha per oggetto quel che, nella propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo oggetto quel che è ottimo nel modo più autentico. L'intelletto pensa se stesso per partecipazione dell'intelligibile, giacchè esso stesso diventa intelligibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che l'intelletto e intelligibile vengono ad identificarsi. E', infatti, l'intelletto il ricettacolo dell'intelligibile, ossia dell'essenza, e l'intelletto, nel momento in cui ha il possesso del suo oggetto, è in atto, e di conseguenza l'atto, piuttosto che la potenza, è ciò che di divino l'intelletto sembra possedere, e l'atto della contemplazione è cosa piacevole e buona al massimo grado. Se, pertanto, Dio è sempre in quello stato di beatitudine in cui noi veniamo a trovarci solo talvolta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua proprietà la vita, perché l'atto dell'intelletto è vita, ed egli appunto è quest'atto, e l'atto divino, nella sua essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicchè a Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio!" (L 6/7 1072 b 15-30)

Egli, poi, è privo di grandezza, senza parti ed indivisibile, impassibile ed inalterabile, ed è anche somma bellezza e sommo bene ed è per questo che i Pitagorici e Speusippo commettono un grave errore asserendo che la bellezza e il bene siano situati non nel principio ma in ciò che da esso scaturisce; il loro errore trae origine da un’errata interpretazione della realtà, giacchè essi non sono stati in grado di capire come i princìpi delle sostanze siano essi stessi sostanze in atto che, quindi, contengono in sé quelle stesse perfezioni delle sostanze che producono. Sorge però, a questo punto, un nuovo, inquietante dilemma: dimostrata l’esistenza di un "motore immobile", che è "pensiero di pensiero" e che, perciò, conduce costantemente quell’ottima vita che a noi uomini è concesso seguire solo a intermittenze, dobbiamo infatti chiederci se, oltre ad Esso, esistano altre sostanze soprasensibili. Si tratta di percorrere una strada sostanzialmente nuova, giacchè in questo campo i predecessori si sono mossi confusamente, senza dar risposte o, nella migliore delle ipotesi, dandone di assolutamente imprecise ed evasive. Oltre al movimento del "cielo delle stelle fisse" (il cui moto produce la successione di giorno e notte ed è causato dall’azione di Dio come causa finale), esistono anche i moti dei pianeti, anch’essi eterni, e anch’essi postulanti qualcosa che li muova: si dovrà pertanto ammettere che, oltre al "motore immobile", esistano altre sostanze soprasensibili che mettano in movimento anche i pianeti? Nel caso si risponda affermativamente, quante saranno tali sostanze? Tante quanti i movimenti, si dovrà rispondere; occorre dunque chiedersi quanti siano questi ultimi, tenendo presente che un’unica sfera è sufficiente per muovere le stelle fisse ma, per quel che riguarda i pianeti, non bastano tante sfere quanti essi sono, poiché per spiegare alcune irregolarità e cambiamenti di posizione in essi riscontrabili si dovranno supporre parecchie sfere per ciascuno; i moti di tali sfere, combinandosi, daranno luogo alla risultante che osserviamo in cielo. Eudosso ritenne che fossero necessarie tre sfere per render conto del moto della luna, tre per quello del sole, e quattro per ciascun altro pianeta, arrivando ad un totale di ventisei sfere; dal canto suo, Callippo ha provveduto ad aumentare di due il numero di sfere della luna e del sole, di una quelle di Marte, di Venere e di Mercurio, raggiungendo un totale di trentatrè sfere. Ciò, tuttavia, non è ancora sufficiente, dal momento che, alle sfere di Callippo, se ne dovranno aggiungere una folta schiera con moto a ritroso, per neutralizzare l’influsso dei moti di un pianeta su quelli del successivo, con un aumento complessivo di ventidue sfere; in totale, stando così le cose, si arriverebbe a cinquantacinque sfere (le trentatrè di Callippo più le ventidue con moto a ritroso ammesse da Aristotele). Da questo complesso ragionamento si dovrebbe, a rigore, ricavare che le sostanze sovrasensibili siano cinquantacinque; ma come si spiega, in una tale abbondanza, l’evidente unità del cielo? L’unica maniera per non entrare in contraddizione risiede, nella prospettiva aristotelica, nell’ammettere l’unicità di Dio, facendo da Lui dipendere l’intero cielo; del resto, che quest’ultimo sia eterno e retto da un principio divino è cosa nota agli uomini fin dagli albori della storia e che si è trasmessa - in forma mitica, ma comunque veritiera nel suo contenuto di fondo - di generazione in generazione fino ai tempi di Aristotele. In chiusura del libro dodicesimo, lo Stagirita affronta la questione del modo di essere del bene (to agaqon) e dell’ottimo (to ariston) nell’universo, mettendo in luce le difficoltà in cui precipitano le dottrine metafisiche elaborate dai fusiologoi e dai Platonici stessi. Aristotele spiega come il bene e l’ottimo esistano sia come ordine immanente alle cose, sia come principio che le trascende; in modo analogo, il bene di un esercito sta sia nell’ordine sia nel comandante. Oltre a questo esempio desunto dal mondo militare, lo Stagirita ne impiega un altro, estrapolato dall’ambito dell’oikoV: l’ordine dell’universo può essere accostato a quello di una casa, dove, in misura diversa e a diverso livello, le singole cose contribuiscono all’ordine e al bene del tutto. In un’ottica di questo genere, cade in errore chi avanza la pretesa di porre i contrari come princìpi delle cose (Aristotele attacca soprattutto Empedocle). Anche Speusippo, del resto, sbaglia nella misura in cui pone come indipendenti tra loro i vari piani della realtà; l’errore dei Platonici e dei Presocratici risiede soprattutto nell’aver ravvisato una molteplicità di princìpi esplicativi della realtà, ed è a tal proposito che Aristotele ad essi oppone la necessità che il principio supremo sia unico, terminando il libro con un celebre verso di Omero (Iliade, II, 204): "ouk agaqon polukoiranih: eiV koiranoV estw" ("il governo di molti non è buono; uno solo sia il comandante"), con il quale viene tacciato Tersite, esponente del dhmoV. Con la trattazione della sostanza soprasensibile che muove il mondo come oggetto di desiderio e di amore (e non come soggetto, come crederanno i medioevali e Dante stesso), potrebbe considerarsi chiusa la "Metafisica", poiché gli ultimi due libri che la compongono risultano trascurabili se inseriti nell’economia del tutto: non è un caso che nel Medioevo non venissero letti. In effetti, essi hanno carattere marcatamente storico e sono destinati a destare l’attenzione soprattutto dell’attento storico, in quanto è in essi racchiusa un’aspra polemica contro la teoria platonica delle Idee e dei Numeri. Il libro tredicesimo traccia uno schema generale da seguire in questa polemica anti-platonica, con la quale Aristotele chiude i conti con il maestro: in primo luogo, verranno affrontate le problematiche dei Numeri e del presunto statuto ontologico attribuito ad essi da Platone; in secondo luogo, avremo un’accurata trattazione delle Idee come esistenti "in sé e per sé", quali appunto erano state concepite da Platone; infine, come sintesi conclusiva, verrà analizzata l’eventualità che Numeri e Idee possano costituire il principio degli esseri. Argomentando contro le Idee e contro i Numeri, Aristotele trova ulteriori prove che depongono a favore dell’esistenza di quelle sostanze da lui riconosciute nel libro precedente: quelle ammesse da Platone, magicamente esistenti in un fantomatico mondo intelligibile non meglio identificato, non esistono né potrebbero, poiché comporterebbero una sfilza di contraddizioni insuperabili. In particolare, allo Stagirita pare assurdo parlare di "Enti matematici" esistenti in maniera autonoma e, quindi, separatamente dalle cose sensibili: come si può pensare che il tre esista "in sé" e poi esistano gruppi di tre cose nella misura in cui esse "partecipano" del tre ideale? Con quest’accesa critica, Aristotele demolisce l’eventualità platonica dell’esistenza "ideale" degli enti matematici, ma non lo fa certo per dimostrare ch’essi esistano come realtà fisiche (poiché ciò sarebbe altrettanto assurdo): al contrario – come già aveva spiegato nel libro sesto – gli enti matematici sono un qualcosa di esistente nelle cose sensibili secondo il modo di essere potenziale e che il nostro pensiero separa mediante l’astrazione. Scendendo più nei particolari, non esiste un tre in sé, un bianco in sé, un piccolo in sé, ma esistono gruppi di tre cose, cavalli bianchi, case piccole. Di fronte a queste realtà, il nostro pensiero opera un’astrazione, ossia – in un certo senso – una sottrazione (afairesiV): ho dinanzi tre uomini, sottraggo ad essi il colore della pelle, dei capelli, l’altezza, il peso, ecc, e – spogliatili di ogni caratteristica – che cosa resta? Resta il fatto che sono tre. Non sono dunque partito da un’Idea di tre autonomamente esistente per poi rintracciarla anche nel mondo di quaggiù; al contrario, partito dalle cose sensibili che mi circondano, ho da esse ricavato la nozione di tre. Si tratta pertanto – spiega Aristotele – di "enti di ragione", che sussistono in atto esclusivamente nella mente umana, poiché l’uomo può astrarre da tutte le particolarità delle cose e guardare le cose stesse solo come corpi a tre dimensioni, oppure solo come superfici, come lunghezze, come unità indivisibili, come punti, come unità pure. Gli oggetti matematici non hanno esistenza autonoma, ma non per questo sono irreali, poiché esistono potenzialmente nelle cose ed è poi la riflessione matematica a separarli nell’atto in cui considera le cose solo come grandezze o numeri. Aristotele critica poi pesantemente tutti coloro che hanno rimproverato alle matematiche di non avere nulla a che fare con il bello o con il bene: trattando delle forme supreme, hanno necessariamente a che fare con il bello, inteso come ordine, simmetria e definito. La critica aristotelica si sposta ora dai Numeri alle Idee in sé considerate, introdotte da Platone per superare le difficoltà imposte dalla dottrina eraclitea del divenire incessante: ha ragione Eraclito a dire che tutte le cose divengono senza tregua, ma non sono esse a costituire l’oggetto della scienza, bensì sono quegli enti immutabili ed eterni che popolano il mondo intelligibile. Così facendo, Platone ha trasformato in entità separate i concetti logici socratici, cosicchè le Idee non sarebbero altro che le entificazioni e le ipostatizzazioni dei concetti e delle definizioni. Alla martellante domanda socratica "ti esti;" ("che cosa è" la bellezza, il coraggio, la virtù, ecc), Platone ha risposto sostanzializzando gli oggetti in questione e facendo così nascere l’Idea di Bellezza, l’Idea di Coraggio, l’Idea di Virtù, e così via, cogliendo le quali è possibile dire che cosa sia bello, giusto, virtuoso. Sotto questo profilo, allora, è secondo Aristotele molto migliore l’indagine condotta da Socrate rispetto a quella platonica: Socrate ha indagato senza sconfinare al di fuori dell’etica, ricercando la definizione universale a proposito di ciascuna delle virtù morali e impiegando il procedimento induttivo (risalendo dai casi particolari di virtù alla virtù in quanto tale). Aristotele fa di lui l’ eurethV dei ragionamenti induttivi e delle definizioni universali, attribuendogli il merito di non concepire gli universali come separati (come invece fecero i Platonici). Dopo aver delineato i punti deboli della dottrina delle Idee, Aristotele torna – con una certa insistenza – sulla teoria platonica dei Numeri Ideali e sulle innumerevoli aporie che insorgono dalla loro ammissione. Il libro quattordicesimo, che chiude l’opera, si apre, ancora una volta, all’insegna di una critica dei princìpi ammessi dai Platonici, una critica condotta per cinque vie argomentative: in primo luogo, lo Stagirita mette in luce le assurdità derivanti dall’ammissione dei contrari come princìpi di tutte le cose (non possono essere "realtà prime", poiché necessitano essi stessi di un sostrato a cui inerire, né possono essere sostanze, perché alla sostanza nulla è contrario: dunque non sono princìpi); dei due contrari ammessi dai Platonici, l’Uno è dai Platonici inteso come forma, l’altro come materia; i Platonici, poi, non hanno chiarito quale sia il contrario dell’Uno; Aristotele, poi, nota come ammettere l’Uno come sostanza sia contraddittorio, giacchè l’Uno, per esistere, necessita sempre di una sostanza cui inerire (un cavallo, una casa, un albero, ecc). Da ultimo, lo Stagirita dichiara guerra al "principio materiale" postulato dai Platonici (il molto e il poco, il grande e il piccolo, ecc) attaccando armato di cinque argomentazioni cogenti: a) sono affezioni, non sostrati; b) sono relazioni, ossia rientrano in quella categoria (la "relazione") dotata del minor tasso di essere; c) la relazione non può essere materia, poiché non può essere potenza; d) il molto e il poco si predicano di ciò di cui dovrebbero essere elementi; e) il poco si predica del due e il molto si predica dei numeri più grandi. Aristotele ritorna poi sulla questione dei "numeri", criticando ancora una volta Platone e i suoi seguaci (soprattutto Speusippo e Senocrate) che hanno ad essi attribuito esistenza autonoma e separata (il tre in sé, e così via): molto migliore è la prospettiva pitagorica, che se non altro concepisce i numeri come immanenti alle cose. Successivamente lo Stagirita prende in esame un’altra problematica non da poco: se il Bene di cui Platone parla nella "Repubblica" nasca solo dallo sviluppo concreto delle cose o, piuttosto, se sia il principio da cui le cose scaturiscono. La risposta data da Aristotele è che il bene appartiene al principio e che quest’ultimo è sostanza autosufficiente e indipendente (proprio perché è Bene). Gli ultimi due paragrafi del capitolo quattordicesimo sono nuovamente dedicati al problema dei numeri in Platone, e Aristotele muove ad essi una critica con la quale avvalora ulteriormente le proprie teorie, secondo le quali i numeri sono un qualcosa di ricavabile per astrazione: non esiste il tre in sé, bensì esistono gruppi di tre cose (tre cavalli, tre uomini, ecc) ed è da essi che – per astrazione – estrapoliamo il concetto di tre.

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