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Argomenti per il quarto anno:

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ROUSSEAU

Lo "stato di natura" come ipotesi di lavoro

Francese per formazione spirituale, ma ginevrino per tradizione morale e politica, Rousseau si è sempre considerato uno straniero nella patria elettiva. Tale sentimento di spaesamento può forse ritenersi il fondamento psicologico di quelle analisi socio-politico-culturali che ne hanno fatto un critico radicale della vita civile del tempo. Nostalgico di un modello di rapporti sociali, improntato al recupero dei sentimenti più profondi dello spirito umano, egli avanzò l’ipotesi dell’uomo di natura, originariamente integro, biologicamente sano e moralmente retto; dunque non malvagio, non oppressore. L’uomo non era, ma è diventato malvagio e ingiusto, e il suo squilibrio non è originario, come riteneva Pascal sulla scorta della Bibbia, ma è uno squilibrio derivato e di ordine sociale.

Rousseau amava e odiava gli uomini. Pur odiandoli egli sentiva di amarli. Li odiava per ciò che erano diventati, li amava per ciò che sono in profondità. La sanità morale, il senso della giustizia, l’amore, fanno parte della natura dell’uomo, mentre la maschera, la menzogna, la fitta rete dei rapporti alienanti sono effetti di quella sovrastruttura che si è andata formando lungo un crinale di estraneamento dai bisogni e dalle inclinazioni originarie.

Lo stato di natura, più che una realtà storicamente databile, è un’ipotesi di lavoro che Rousseau attinge scavando principalmente dentro di sé e che utilizza per cogliere quanto di tale ricchezza umana è stato oscurato e represso dall’effettivo cammino storico.

2. Il valore normativo dello "stato di natura"

Dunque, più che di un periodo storico o di una particolare esperienza storica, si tratta, quando parliamo di uno stato di natura in Rousseau, di una categoria teorica che agevola la comprensione dell’uomo presente e delle sue contraffazioni. Lo stato di natura ha un valore normativo, è un punto di riferimento nella determinazione degli aspetti corrotti che si sono insinuati nella nostra natura umana.

Il tema del ritorno alla natura attraversa e sostiene tutti gli scritti del filosofo ginevrino. Su tale orientamento di pensiero è evidente l’influsso del mito del "buon selvaggio", diffuso nella letteratura francese, a partire dal Cinquecento quando, in seguito alle grandi scoperte geografiche, comincia l’idealizzazione dei popoli primitivi e l’apologia della "vita selvaggia". Quando nel Settecento la vita sociale con i suoi "costumi corrotti" venne sottoposta alla critica della ragione, il gusto dei costumi esotici e il fascino di quanto appariva estraneo alla civiltà europea si accentuarono e si diffusero. Rousseau studia con passione quel materiale documentario, e le sue analisi risultano di estremo interesse. "I selvaggi – afferma nel Discorso sulle scienze – non sono precisamente cattivi, perché non sanno cosa sia essere buoni; poiché non è l’accrescimento dei lumi né il freno della legge, ma la calma delle passioni e l’ignoranza del vizio che impedisce loro di fare il male" (intellettualismo etico socratico).

Si tratta, dunque, di uno stato al di qua del bene e del male. Lasciata al suo libero sviluppo, la natura porta al trionfo dei sentimenti, non della ragione, dell’istinto, non della riflessione, o dell’autoconservazione e non della sopraffazione. L’uomo non è soltanto ragione, anzi originariamente, l’uomo non è ragione, ma sentimenti e passioni.

3. Lo "stato di natura" come stimolo di cambiamento per l’uomo moderno

L’attenzione di Rousseau, anche se egli guarda al passato, è tutta rivolta all’uomo presente, corrotto e disumano. Non si può parlare di primitivismo o di culto della barbarie, anche perché Rousseau conosce i limiti di quello stadio di vita. Nel Discorso sull’ineguaglianza scrive: "Errando nella foresta senza lavoro, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza alcun bisogno dei suoi simili, così come senza alcun desiderio di nuocer loro, persino senza mai riconoscerne alcuno individualmente, l’uomo selvaggio, soggetto a poche passioni e bastante a se stesso, non aveva che i sentimenti e i lumi propri a quello stato, non provava che i bisogni veri, non guardava se non quanto aveva interesse di vedere e la sua intelligenza non faceva maggiori progressi della sua vanità. Se per caso faceva qualche scoperta, non poteva farne parte a nessuno, in quanto non riconosceva neppure i suoi figli. L’arte moriva con l’inventore; non vi era né educazione né progresso, le generazioni si moltiplicavano inutilmente e, poiché ognuno partiva sempre dal medesimo punto, i secoli scorrevano e rimaneva inalterata la rozzezza dell’età primitiva, la specie era già vecchia e l’uomo rimaneva sempre bambino".

Il mito del "buon selvaggio" è soprattutto una sorta di categoria filosofica, una norma di giudizio in base a cui condannare l’impianto storico-sociale che ha mortificato la ricchezza passionale dell’uomo, come la spontaneità dei suoi sentimenti più profondi. Confrontando l’uomo qual era con l’uomo qual è, Rousseau intendeva stimolare gli uomini a un cambiamento salutare.

4. Rousseau contro gli Enciclopedisti

La cultura ha peggiorato l’uomo

Rousseau è contro la cultura, così come si è storicamente configurata, perché essa ha deturpato la natura.

Originariamente sano, l’uomo si ritrova sfigurato; una volta simile a un dio, è diventato, ora, peggiore di una bestia feroce. L’uomo ha seguito una curva di decadenza. Trasferire le diseguaglianze, i dislivelli, le ingiustizie del presente sull’uomo originario o riportarle alla struttura dell’uomo, significa leggere il passato con gli occhi del presente.

Lo spirito competitivo e conflittuale non è originario, ma derivato, perché frutto della storia. In sostanza, Rousseau pronuncia un giudizio severo e radicale su quanto l’uomo ha fatto e detto, come sulla riduzione dell’uomo a realtà razionale e sull’esaltazione dei suoi prodotti culturali, perché non hanno fatto progredire, ma regredire l’umanità.

Quella di Rousseau fu una posizione "scandalosa" perché riteneva responsabile dei mali sociali quelle lettere, arti e scienze in cui gli Enciclopedisti riponevano le cause del progresso. Le scienze, le arti e le lettere – si legge nel Discorso sulle scienze – non hanno fatto progredire la felicità umana ma hanno consolidato i vizi che le hanno provocate.

Ciò che per gli Enciclopedisti era progresso, per Rousseau era regresso e corruzione. "Tutti i progressi della specie umana l’allontanano continuamente dal suo stato primitivo; più noi accumuliamo nuove conoscenze e più ci precludiamo di acquistare la più importante di esse".

Questa storia di corruzione e ingiustizie ha avuto inizio per Rousseau con il nascere della diseguaglianza fra gli uomini, con l’affermazione della proprietà privata.

Visione pessimistica della storia

Quella di Rousseau è, pertanto, una visione pessimistica della storia e del suo corso, come dei suoi prodotti culturali. Voltaire squalificò il Discorso sull’ineguaglianza come un "libello contro il genere umano".

Oltre che contro gli Enciclopedisti, Rousseau attacca anche Hobbes. L’uomo non è di per sé un lupo per l’altro uomo. L’uomo lo è diventato nel corso della storia. Lo stato di natura non è lo stato dell’istinto violento, dell’affermazione della vitalità senza controllo (lo ius in omnia di Hobbes). "Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose", mentre "tutto degenera nelle mani dell’uomo". L’antitesi è radicale tra natura e cultura, tra stato primitivo e stato civile nella sua configurazione socio-politico-economica.

Rousseau illuminista

Bisogna migliorare la società "rinaturalizzando" l’uomo

Rousseau è contro gli illuministi, non contro l’Illuminismo, di cui è interprete e fautore intelligente; è contro i giusnaturalisti, non contro il giusnaturalismo.

Rousseau è un illuminista, perché considera la ragione lo strumento provilegiato per il superamento e la vittoria sui mali, in cui secoli di deviazione hanno gettato l’uomo.

Rousseau è un giusnaturalista perché ripone nella natura umana la garanzia e le risorse per la salvezza dell’uomo. Egli è contro gli illuministi e i giusnaturalisti del tempo che ritenevano avviato l’itinerario di liberazione. Ai suoi occhi la società era ancora il prolungamento di una storia decadente e superstiziosa, e le arti, le scienze e le lettere le riteneva fondate su falsi presupposti.

La strada della salvezza è un’altra. È la strada del ritorno alla natura e quindi della "rinaturalizzazione dell’uomo".

La società non può essere guarita con semplici riforme interne o con il semplice progresso delle scienze e delle tecniche. È necessaria una trasformazione dello spirito del popolo, un totale mutamento delle istituzioni. È necessaria una grande e dolorosa rivoluzione, una rottura radicale. Alla razionalità illuministica bisogna opporre una razionalità interiorizzata, in grado di recuperare la voce della coscienza. Infatti, se "il selvaggio vive in se stesso, l’uomo della società, sempre al di fuori di sé, sa vivere unicamente dell’opinione degli altri, ed è per così dire soltanto dal loro giudizio che egli trae il sentimento della propria esistenza". La società si è del tutto esteriorizzata e l’uomo ha perso il collegamento con il mondo interiore.

Occorre, dunque, far leva sul potenziale di bontà che è nell’uomo ma allo stato virtuale, con cui ricatturare il mondo sociale e recuperare il senzo della virtù, intesa come costante trasparenza e richiamo tra interno ed esterno.

Rientrando dentro di sé, l’uomo però non s’imbatte in una realtà incontaminata, ma ritrova il male sedimentatosi nel corso della storia. Da qui l’urgenza di una conversione che muova dall’interno dell’uomo e quindi di un ripensamento di tutti i suoi prodotti culturali, il cui compito sarà quello di aiutare a creare istituzioni sociali che non distorcano lo sviluppo dell’uomo, ma lo pongano nelle condizioni di realizzare la sua più profonda libertà.

Rousseau non è contro la ragione o contro la cultura. Egli è contro un modello di ragione e contro certi prodotti culturali. Egli si batte per il trionfo della ragione, non però coltivata per se stessa, senza spessore e autenticità, ma come filtro critico e polo aggregante dei sentimenti, degli istinti, delle passioni, in vista di un’effettiva ricostituzione dell’uomo integrale, non però in direzione individualistica, ma in direzione comunitaria.

Il male è nato con la società, e con la società, purché debitamente rinnovata, può essere espluso e debellato.

Il Contratto sociale

"L’uomo è nato libero e tuttavia è ovunque in catene", esordisce Rousseau nel Contratto sociale. Sciogliere l’uomo dalle catene e restituirlo alla libertà, è l’obiettivo del nuovo contratto che il filosofo ginevrino si appresta a delineare. Tale contratto non prospetta il ritorno alla natura originaria, ma esige la costruzione di un modello sociale, non fondato sugli istinti e sugli impulsi passionali, come quello primitivo, né però sulla sola ragione isolata e contrapposta ai sentimenti o alla voce del mondo pre-razionale, ma sulla voce della coscienza complessiva dell’uomo, aperto alla comunità.

Ma qual è il principio che renderà possibile tale palingenesi storica?

Certo non la volontà astratta o la ragione pura, estranea alle passioni, o la concezione individualistica dell’uomo, su cui facevano leva gli illuministi del tempo. Il principio che legittima il potere e garantisce la trasformazione sociale è costituito dalla volontà generale amante del bene comune.

Ma cos’è la volontà generale?

Rousseau scrive nel CS: "La volontà generale soltanto può dirigere le forze dello Stato secondo il fine per cui questo è stato istituito, cioè il bene comune; infatti, se l’opposizione degli interessi particolari ha reso necessaria l’istituzione della società, questa a sua volta è stata resa possibile dalla concordanza di quei medesimi interessi. Proprio ciò che vi è di comune in questi diversi interessi forma il vincolo sociale, e se non vi fosse qualche punto sul quale tutti gli interessi si accordassero, nessuna società potrebbe esistere. Orbene, è unicamente sulla base di questo interesse comune che la società deve essere governata".

La volontà generale non è il frutto di un patto di soggezione (pactum subiectionis) a una terza persona (come in Hobbes), il che implicherebbe la rinunzia alla propria responsabilità diretta e la delega dei propri diritti. La volontà generale è frutto di un "pactum unionis" che ha luogo tra eguali, che restano sempre tali, perché – scrive Rousseau nel CS – si tratta "dell’alienazione totale di ciascun individuo con tutti i suoi diritti a tutta la comunità [dando luogo] a un corpo morale e collettivo [...] che trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà".

La volontà generale non è, dunque, la somma delle volontà di tutti i componenti, ma una realtà che scaturisce dalla rinuncia di ognuno ai propri interessi a favore della collettività. È un patto che gli uomini non stringono con Dio o con un capo, ma tra loro, in piena libertà e in perfetta uguaglianza.

Questo principio afferma la totale collettivizzazione e socializzazione dell’uomo che, con la volontà geneale, deve pensare a sé solamente pensandosi insieme agli altri e solo tramite gli altri; e deve considerare gli altri non come strumenti ma come fini in sé. Nessuno deve ubbidire all’altro, ma tutti alla legge, sacra per tutti, perché espressione della volontà generale (Qui Rousseau anticipa l’"etica del dovere" kantiana).

Rousseau sottolinea, dunque, l’interiorizzazione della vita sociale e dei suoi doveri. Non c’è nulla di privato. Tutto è pubblico o almeno deve diventarlo. L’uomo è – come sosteneva Aristotele – essenzialmente sociale, un animale politico. È l’affermazione del primato della politica sulla morale o meglio la fondazione della morale sulla politica

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