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MARTIN HEIDEGGER
Essere e tempo rappresenta una specie di Odissea moderna alla ricerca
di un "senso" del quale, alla fine, è trovato solo un
annuncio: l'essere deve ancora essere analizzato. Finora, sembra dire
Heidegger, abbiamo considerato solo l'esserci; manca completamente il
"senso" dell'essere. C'è un ostacolo sul nostro cammino:
tutta la filosofia, meglio ancora, quelle filosofie che hanno allontanato
dal vero problema, dal pensiero greco a quello contemporaneo. Accettando
come ovvio e già dato il "senso" dell'essere, la tradizione
metafisica va considerata nel suo insieme come un pensiero della "presenza".
Tale «presenza è "semplice" perché è
il risultato di una semplificazione, di una vera e propria amputazione:
sottratto dal suo complesso gioco con l'assenza, l'essere qui e ora del
presente si blocca in una dimensione che, a veder bene, non ha tempo,
è priva di temporalità. Ma è priva anche di spazio,
perché a sua volta lo spazio è intimamente connesso con
la temporalizzazione. Eppure questo modo di guardare la realtà,
rendendola così povera e vuota mentre produce l'illusione che sia
piena e ricca, è il modo "ovvio": esso pervade la quotidianità,
e non cessa di dare la sua impronta alla filosofia stessa, la quale, perpetuando
un pregiudizio che mina alla base ogni sua affermazione, viene meno proprio
al suo compito che sarebbe quello di porsi innanzi tutto il problema di
tale ovvietà e di prendere da essa una distanza.»
In Essere e tempo viene dunque formulato il problema che terrà
occupato Heidegger per tutti i suoi giorni, quello dell'essere. Secondo
Heidegger, la tradizione della metafisica ha mancato di riflettere sul
problema dell'essere perchè, anche quando compare, non viene pensato
in rapporto col tempo, come articolazione di passato, presente e futuro.
Nella tradizione della metafisica l'essere è ridotto a ente e quindi
viene tematizzato solo in quanto presente. Tale errore viene ricondotto
a Platone ed Aristotele. Essi diedero vita ad una metafisica della presenza.
Ma il presente, per Heidegger, può essere solo nella dimensione
del tempo. Si tratta perciò di ritornare a pensare l'essere anche
rispetto a passato e futuro, affinché l'essere non venga più
pensato in una sola dimensione, la quale ha un carattere stabile, e solo
per questo non può sfuggire al controllo ed al dominio del soggetto.
Essere e tempo era quindi il titolo appropriato per l'opera che Heidegger
voleva compiere. Il testo doveva includere due parti, ciascuna divisa
in tre sezioni. Ma il progetto si interruppe alla seconda sezione della
prima parte.
Fino al termine, il filo conduttore è fornito dall'analisi della
condizione dell'uomo, ente privilegiato che è l'esserci. L'esserci
ha questo privilegio, avendo sempre la possibilità di porsi il
problema dell'essere. Secondo Heidegger, tale problema ha portata esistenziale,
quindi ontologica.
Quest'analisi non può dunque risolversi nell'antropologia o nella
psicologia, tanto meno nella biologia. Il carattere fondamentale dell'esserci
umano è l'essere-nel-mondo, non il suo essere soggetto,anima o
pensiero. Essere-nel-mondo non significa starci dentro come una cosa,
ma assumere il mondo come orizzonte del progetto. La progettualità
umana è definita trascendenza, che non è un comportamento
possibile tra i tanti, ma la stessa costituzione fondamentale dell'esserci.
D'altro canto, il mondo non è una cosa, ma il campo di possibilità
dell'umano trascendere. Dunque l'esserci che esiste nel senso etimologico
della parola, "sta fuori" ed "oltrepassa" la realtà
in direzione della possibilità. Insistendo su tale differenza tra
la propria concezione di esistenza e quella tradizionale, Heidegger può
dire che l'essenza dell'essere umano è l'esistenza. Tuttavia, i
modi d'essere dell'esistere non sono descrivibili mediante categorie.
Con esse si determinano le caratteristiche delle cose semplicemente presenti.
I modi d'essere dell'esistenza si determinano attraverso esistenziali,
nei quali, a differenza che nelle categorie, è custodita la possibilità.
I due esistenziali fondamentali sono il sentire situato e il comprendere,
che indicano rispettivamente la passività e la ricettività,
determinati secondo discorso.
L'unità degli esistenziali è chiamata Sorge, cura. Sorge
significa per Heidegger la responsabilità che ci si assume di fronte
alle cose, il modo con cui ad esse si risponde. Si può avere cura
di esse in modo sia autentico che inautentico; la differenza non è
tipo morale. «L'esistenza autentica - scrive Heidegger - non è
qualcosa che si liberi al di sopra della quotidianità deiettiva;
esistenzialmente essa è solo un afferramento modificato di questa
[...] L'interpretazione ontologico esistenziale non ha la pretesa di formulare
giudizi sulla "corruzione della natura umana"; e ciò
non perché ne manchino le prove, ma perché la sua problematica
si pone al di qua di qualsiasi giudizio sulla corruzione o non corruzione
degli enti.»
Il rapporto tra uomo e cose consiste dunque nel prendersi cura delle cose,
mentre quello tra uomo e gli altri consiste nella cura delle persone.
La cura è dunque la struttura fondamentale dell'esserci, e si può
manifestare in due modi. Il primo consiste nel sottrarre agli altri le
loro cure; il secondo consiste nell'aiutare gli altri ad essere liberi
di assumere le proprie cure. Nel primo modo non ci si cura degli altri,
ma delle cose da procurare loro. Nel secondo si apre agli altri la possibilità
di trovare sé stessi e realizzarsi. Potrebbe sembrare la riproposizione
della dialettica servo-padrone che apre l'hegeliana Fenomenologia dello
spirito, sebbene detta in altro modo, e con altre valenze. Resta che Heidegger
considera la prima modalità come forma inautentica della coesistenza:
è semplice "essere assieme". Solo la seconda è
vero coesistere.
In questo scenario si rivela così l'esistenza anonima, cioè
la vita di chi ascolta passivamente "il si dice" o "il
si fa", rendendosi succube di questa generale anonimia del "così
fan tutti". E' il senso della vita? Se sì, tutto è
livellato, reso "ufficiale" convenzionale e, ovviamente, insignificante.
Il linguaggio che per sua natura sarebbe svelamento dell'essere, diventa
chiacchiera inconsistente. Ma un'esistenza così vuota cerca di
riempirsi, perciò è morbosamene attratta dalle novità.
E' caratteristica della curiosità, non per l'essere delle cose,
ma per la loro apparenza visibile. Ciò porta all'equivoco, che
nell'esistenza anonima conduce a non sapere nemmeno di che si sta parlando.
Ecco dunque la deiezione, cioè la caduta dell'esserci al livello
delle cose. Tuttavia, nonostante l'orrore che si può provare di
fronte ad un simile condizione che improvvisamente si svela di fronte
a noi, tale deiezione non va considerata come un peccato originale e nemmeno
come un accidente superabile con il progresso umano e scientifico. Essa
fa parte dell'esserci, dipende dal trovarsi gettati nel mondo, in mezzo
agli altri, al loro stesso livello esistenziale. Tale condizione viene
quindi vissuta nella condizione emotiva in cui l'uomo si sente fondamentalmente
abbandonato.
La seconda sezione di Essere e tempo prova ad analizzare il senso dell'essere,
individuato nella temporalità. A ciò si perviene considerando
la contraddizione tra l'essere dell'esserci come possibilità progettuale
e la morte, che esprime la più radicale impossibilità dell'esistenza.
Tale contraddizione è apparente perché da un lato l'esserci
è compiuto quando a tutti i suoi modi d'essere si aggiunge l'esser
morto, ovvero si è un ci che non ci è più. Ma la
morte è anche tale per cui, col suo arrivo, nulla è più
possibile per l'esserci come essere-nel-mondo.
Come possibilità "più autentica" e "più
propria", lungi dal chiudere l'esserci in un circolo disperato, la
morte può aprirlo alle sue possibilità più autentiche,
se non viene affrontata come un fatto ineluttabile, ma viene anticipata
come ciò che rende possibile la possibilità, cioè
la fa apparire veramente come tale. Ciò consente, secondo Heidegger,
di evitare di irrigidirsi in una possibilità, assumendo se stessi
come eterno poter-essere.
Per anticipare la morte occorre una decisione che consente all'esserci
di rappresentarsi come puro poter-essere, riconoscendosi così nella
sua vera essenza. La morte è una possibilità incondizionata
perché appartiene all'uomo considerato come individuo isolato.
Tutte le altre possibilità tengono l'uomo in mezzo alle cose del
mondo, in mezzo all'umanità; solo la morte isola l'uomo e lo pone
solo con se stesso. Essa è l'unica certezza, e qui Heidegger fa
a pugni con la logica parlando di "possibilità certa",
ma è per esprimere questo doppio carattere della morte, vista insieme
come possibilità anticipata e come unica certezza. L'esistenza
quotidiana anonima, cioè quella della chiacchiera inconsistente
rivolta alle vanità mondane, non è che una fuga di fronte
alla morte. L'esserci nasconde la morte, la rimuove. Solo la voce della
coscienza richiama l'uomo alla morte, al suo essere-per-la-morte. Ovviamente,
vivere per la morte non ha il significato di realizzarla con il suicidio.
Vivere per la morte non è nemmeno attesa. Piuttosto, è comprendere
l'impossibilità dell'esistenza come tale. Tuttavia è possibile
comprendere tale impossibilità: questo è il vero senso del
vivere per la morte. C o m p r e n d e r e. Ogni comprensione è
accompagnata da uno stato emotivo, l'angoscia. «L'angoscia è
la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale
minaccia che sale dall'essere più proprio ed isolato dell'uomo.»
L'angoscia pone l'uomo di fronte al nulla e la sola esistenza autentica
è quella che comprende chiaramente (e emotivamente) la radicale
nullità dell'esistenza.
La temporalità non è, per Heidegger, il tempo dei calendari
e degli orologi che misurano e datano gli eventi. Non è nemmeno
il tempo soggettivo della coscienza pura. Piuttosto, la temporalità
si manifesta in primo luogo nell'essere-per-il-futuro dell'esserci in
senso pratico, che può risultare autentico o inautentico. Nell'esistenza
autentica la cura dell'esserci è dispersa nel mondo. Nella vita
autentica, al contrario, l'esserci deve scegliere la possibilità
più possibile. E proprio nel momento della più autentica
libertà, l'esserci viene a trovarsi dipendente, quindi asservito,
da possibolità tramandate e ereditate. Quindi l'esserci autentico
ha uno sguardo temporale rivolto al passato, oltre che al presente ed
al futuro. In tale contesto, l'esserci autentico si può appropriare
del proprio destino.
L'ostacolo che incontrò Heidegger a chiudere Essere e tempo, secondo
le sue ambizioni iniziali, fu di natura linguistica. Avrebbe voluto affrontare
il tema del senso dell'essere in generale ma, non trovava le parole per
dirlo. La natura della difficoltà venne evidenziata più
tardi nella Lettera sull'umanismo del 1947. Qui cercò di spiegare
che l'analitica dell'esistenza aveva il il senso di "un pensiero
che sta abbandonando la soggettività" per aprirsi "alla
luce dell'essere". La III sezione non venne composta perché
il suo pensiero si trovò impossibilitato a formulare la "svolta".
Il linguaggio di cui disponeva allora Heidegger, quello della tradizionale
metafisica della "presenza", era inutilizzabile. «Il linguaggio
- spiegherà Heidegger nella Lettera sull'umanismo - non è
una manifestazione di un organismo o espressione di un essere vivente.
Perciò non è possibile intenderlo, nella sua essenza,in
base al carattere di segno e forse neppure in base a quello di significato.
Il linguaggio è evento illuminante e proteggente dell'essere.»
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